C'era una volta un uomo che era un sognatore. Era convinto, per esempio, che doveva esserci un modo per vedere a chilometri e chilometri di distanza,oppure un modo per mangiare la minestra con la forchetta.Credeva possibile un modo per far stare la gente in equilibrio a testa in giù, ed era sicuro che doveva esserci un modo per far vivere la gente senza paura.
Gli dicevano "Non si può fare nessuna di queste cose; sei un sognatore!" E ancora, " Devi aprire gli occhi e accettare la realtà!" E ancora, "La natura ha le sue leggi, e non sarai tu a cambiarle!"
Ma l'uomo diceva: "Non so.deve pur esserci un modo per respirare sott'acqua. E ci sarà pure un modo per dare a tutti qualcosa da mangiare. E un modo per far imparare a chiunque quello che vuole sapere. E uno per guardare dentro alle pance della gente."
E gli dicevano" Riprenditi, ragazzo; tutto questo non accadrà mai. Non basta dire che si desidera qualcosa, perché accada. Il mondo va come va, e non c'è altro da dire!"
Dopo l'invenzione della televisione e degli apparecchi a raggi X, l'umanità è riuscita a vedere a chilometri e chilometri di distanza, e anche dentro la propria pancia. Ma nessuno ha detto all'uomo che sognava "Okay, dopo tutto non avevi tutti i torti:" E nessuno gli ha detto qualcosa dopo che qualcuno ha inventato le mute da immersione che permettono di respirare facilmente sott'acqua. Ma l'uomo diceva tra sé e sé: Esattamente come pensavo. Forse un giorno sarà anche possibile andare d'accordo e non fare più guerre.
Dopo l'invenzione della tivù e degli apparecchi a raggi x l'umanità fu in grado di vedere a migliaia di chilometri di distanza e poté guardare cosa c'è dentro la pancia, ma nessuno disse al sognatore: "Va bene, ci rendiamo conto che, in fondo, non avevi tutti i torti". Nessuno gli disse nulla neppure quando fu inventata la muta per le immersioni, che permette alle persone di respirare facilmente anche sott'acqua, ma egli pensò fra sé e sé: "Questo è proprio ciò che io avevo immaginato. Forse un giorno sarà persino possibile andare d'accordo e non fare più la guerra".
Lontano, lontano oltre le stelle, tutto è molto differente da qui. E ancora più lontano di lì, tutto è ancora più differente da lì, dove tutto è molto differente da qui. Ma se volassimo lontano, molto molto lontano, verso il luogo dove tutto è completamente differente da qualsiasi altro luogo, forse là tutto potrebbe essere proprio uguale a qui.
Forse, in questa terra lontana, c'è un pianeta grande quanto la nostra Terra, e forse ha degli abitanti, persone che sono quasi come noi, se non fosse perché sono blu e possono avvolgere le orecchie quando non vogliono sentire.
E forse è scoppiata una guerra su questo pianeta lontano, e tante persone blu sono morte. Sono rimasti molti orfani, ed è tra le rovine di una delle case distrutte dalle bombe che sedeva un ragazzino blu e piangeva perché aveva perso il padre e la madre. Rimase seduto lì per molto tempo, e piangeva, ma a un certo punto si fermò perché aveva pianto tutte le lacrime che aveva. Si tirò su il bavero, infilò le mani intasca, e se ne andò. Se incontrava una roccia la prendeva a calci e se vedeva un fiore lo calpestava.
Gli si avvicinò un cagnolino, lo guardò e prese a scodinzolare. Poi girò su se stesso e si mise a camminare a fianco del ragazzo, come se avesse deciso di rimanere con lui.
"Vattene!" diceva il ragazzo al cane. "Devi andartene. Se resterai con me dovrò amarti, e non voglio amare mai più nessuno per tutta la vita."
Il cane lo guardava e scodinzolava amichevolmente. Il ragazzo trovò un fucile accanto al corpo di un soldato morto: Lo raccolse e lo mostrò al cane: "Questo fucile può ucciderti!" disse con rabbia, e il cane scappò.
"Ti porterò con me" diceva il ragazzo al fucile " Sarai un buon amico." E col suo fucile sparò un colpo a un albero morto.
Trovò uno scooter volante appena abbandonato in un campo. Salì e cercò di mettere in moto. Lo scooter volante funzionava.
"Ora ho un fucile e uno scooter volante, " diceva il ragazzo. "Saranno la mia famiglia. Potrei anche avere un cane, ma potrebbe essere ucciso e allora morirei dal piangere."
Volava qua e là col suo scooter volante, quando vide una casa da cui usciva del fumo. " Lì dentro vive ancora qualcuno" disse il ragazzo. Girò intorno alla casa e guardò attraverso le finestre. All'interno c'era soltanto una vecchia che stava cucinando qualcosa.
Parcheggiò lo scooter volante davanti alla casa, prese il fucile ed entrò. "Ho un fucile!" disse alla vecchia. "Devi darmi qualcosa da mangiare!"
"Entra, ti avrei dato qualcosa in ogni caso" disse la vecchia. "Puoi venire avanti e mettere via il fucile."
"Non voglio che tu sia gentile con me!" disse il ragazzo bruscamente " Il mio fucile può ucciderti!"
Così la vecchia gli diede qualcosa da mangiare, e lui volò via.
Ora il ragazzo viveva così. Si era preparato un nascondiglio in una casa abbandonata. Quando aveva fame, volava dove c'era gente, e li obbligava col fucile a dargli qualcosa da magiare.
Altre volte sorvolava i campi di battaglia abbandonati e raccoglieva pezzi dalle armi e dai carri e dai camion abbandonati. Portava tutto al suo nascondiglio.
"Costruirò un robot gigante corazzato!" diceva tra sé. "Sarà alto cento metri e peserà cento tonnellate e io lo comanderò da una cabina in cima alla sua testa. Sarò potente e nessuno potrà farmi niente."
Un giorno una ragazza arrivò al nascondiglio. Il ragazzo uscì col fucile e disse: "Devi andartene! Il mio fucile può spararti!"
"Non voglio darti fastidio, " diceva la ragazza" Sto solo cercando di capire se i funghi hanno ricominciato a crescere."
"Devi andartene!" Diceva il ragazzo. " Non voglio nessuno intorno!"
"Sei solo?"chiese la ragazza
"No, " disse il ragazzo "Ho un fucile e uno scooter volante. Loro sono la mia famiglia. E un giorno avrò un robot gigante corazzato!"
" Non c'è nessun essere vivente con te?"
"Avrei potuto avere un cane. Ma se qualcuno l'avesse ucciso, sarei morto dal piangere"
"Anch'io non ho nessuno, " disse la ragazza. "Potremmo stare insieme."
"Non voglio stare con nessuno che possa essere ucciso da un fucile!"
"Allora immagino che dovrai soltanto trovare qualcuno che non possa essere ucciso da un fucile!" disse la ragazza e se ne andò.
E il ragazzo costruì un robot gigante corazzato e vi entrò. Sedeva nel punto più alto della testa del robot, dove aveva costruito la cabina con i comandi.
Poi partì; e guidava per la campagna nel suo robot gigante corazzato.
La gente rabbrividiva quando lo vedeva arrivare, e pensava soltanto a scappare. Ma nessuno poteva sfuggire al robot gigante corazzato.
Nella cabina c'era un microfono, e tutto quello che il ragazzo diceva al microfono usciva come un ruggito dalla bocca del robot. " C'è qualcuno qui che non può essere ucciso da un fucile?" Tuonava il robot. Ma ovunque arrivasse la gente fuggiva e così non si trovava mai qualcuno che non potesse essere ucciso da un fucile.
Ma un giorno, dall'alto della cabina in cui sedeva, il ragazzo riuscì a vedere che qualcuno non stava scappando, ma stava ritto in piedi laggiù e gli gridava qualcosa; ma lui stava così in alto da non capire quello che gli diceva.
"Non sarà mica qualcuno che non può essere ucciso da un fucile?" pensava il ragazzo e così scese. Era la vecchia che gli aveva dato da magiare qualche tempo prima. "Volevi dirmi qualcosa?" chiese il ragazzo.
"Sì" rispose la vecchia "Ho sentito parlare di qualcuno che non può essere ucciso da un fucile e ho pensato che dovevo dirtelo."
"E chi è?" chiese il ragazzo
"Un vecchio che abita sulla Luna."
"Allora andrò a cercarlo, " disse il ragazzo "Visto che non voglio nessuno intorno che possa essere ucciso da un fucile."
Schiacciò un interruttore e il suo robot gigante corazzato si trasformò in un razzo gigante corazzato e il ragazzo volò sulla Luna.
Una volta sulla Luna il ragazzo ebbe da cercare per molto tempo, ma alla fine trovò il vecchio. Sedeva dietro un telescopio guardando in giù verso il pianeta blu.
"Sei tu l'uomo che non può essere ucciso da un fucile?" chiese il ragazzo al vecchio.
"Direi di sì, " rispose il vecchio.
"E cosa stai guardando col telescopio?"
"Sto studiando gli abitanti di quel pianeta laggiù."
"Credi che potrei restare con te?" chiese il ragazzo
"Forse" disse il vecchio. "Ma cosa trovi di così speciale in me?"
"E' perché voglio stare con qualcuno che non possa essere ucciso da un fucile. Quando i miei genitori sono morti, ho pianto tutte le lacrime che avevo: avrei anche potuto avere un cane, ma se qualcuno lo avesse ucciso sarei morto dal piangere. E sarei anche potuto restare con una vecchia o con una ragazza. Ma non erano a prova di proiettile e se fossero state uccise, sarei morto dal piangere."
"Va bene" disse il vecchio "puoi restare con me. Nessuno può spararmi, non ci sono fucili qui."
"E' questa l'unica ragione?" chiese il ragazzo
"Proprio così" disse il vecchio
"Ma io ho portato con me il mio fucile."
"Peccato" disse il vecchio, "Allora non puoi restare con me. Il tuo fucile potrebbe uccidermi."
"Allora dovrò tornare in dietro, " disse il ragazzo.
"Sì, " disse il vecchio.
"Peccato, " disse il ragazzo.
"Ti dispiace?" chiese il vecchio
"Sì, " disse il ragazzo "Mi sarebbe piaciuto rimanere qui".
"Forse potresti buttare via il tuo fucile..." disse il vecchio.
"Forse, " disse il ragazzo "E cosa farei dopo?"
"Potresti guardare con questo telescopio, e forse riusciresti a capire perché quelle persone laggiù non fanno altro che guerre: "
"E perché non fanno altro che guerre?"
"Ma, questo proprio non lo so. Suppongo che abbia qualcosa a che vedere col non conoscersi abbastanza. Sono così tanti, e la loro vita è così complicata che non capiscono l'effetto delle loro azioni sugli altri. Immagino che non sappiano da dove venga la carne che mangiano o dove vada il pane che cuociono. Credo che non sappiano se il ferro che estraggono dalla terra sia usato per fare bulldozer o cannoni. Forse non sanno neanche se la carne che mangiano appartenga ad altri esseri umani. Se potessero vedersi dall'alto, forse capirebbero meglio molte cose."
"Quindi qualcuno dovrebbe mostrarglielo?" disse il ragazzo.
"Forse, " disse il vecchio, "Ma io sono troppo vecchio e stanco per farlo."
Fu soltanto dopo queste parole che il ragazzo lasciò cadere il fucile; e il fucile cadde attraverso lo spazio, giù sul pianeta; e là, andò in mille pezzi.
Così il ragazzo rimase molto molto tempo sulla Luna col vecchio, e scrutava col telescopio, e studiava le persone laggiù. E forse un giorno è volato giù e ha spiegato a quelle persone in che cosa sbagliavano.
Su un minuscolo pianeta vivevano una volta delle persone che lavoravano sodo e altre che non lavoravano poi così sodo. Poi ce n'erano altre che lavoravano molto sodo e altre che erano molto pigre. Tanto per capirci- le cose andavano esattamente come vanno in qualsiasi altra parte dell'universo; se non fosse perché i pigri e i gran lavoratori ammucchiavano ogni cosa che coltivavano - specialmente una gran varietà di carote- in una catasta e dividevano ogni cosa che si trovava nella catasta. Questo non è esattamente ciò che accadeva dappertutto.
Ma un giorno alcuni dei gran lavoratori dissero, " Non ne possiamo più: Noi peniamo e sudiamo tutto il giorno e gli altri che stanno tutto il giorno sdraiati al sole a fischiettare arrivano bel belli e pretendono di mangiare le nostre carote." E invece di gettare le carote nella catasta comune le portarono a casa e si ingozzarono fino a scoppiare.
I pigroni si limitarono a scrollare di spalle e cominciarono a mangiare dalla grande catasta e, naturalmente mangiarono più di quello che avevano portato nella grande catasta.
Allora quelli che lavoravano ma non troppo e quelli che erano pigri ma non troppo notarono che ora tutti avevano meno di prima visto che i gran lavoratori avevano sempre portato alla catasta molte più carote di quante loro stessi ne mangiassero.
Allora quelli che lavoravano ma non troppo dicevano " Anche noi ci terremo le nostre carote." Smisero di portare carote alla grande catasta e ciascuno di loro si fece una piccola catasta privata a casa.
E quelli che erano pigri ma non troppo fecero la stessa cosa. "Non abbiamo scelta," dicevano ai pigroni.
Ora tutti avevano le loro cataste di carote private di fronte alle loro casette, e quando avevano voglia di mangiare un particolare varietà di carote che non era nella loro catasta, dovevano vedere di riuscire a commerciarla con qualcun altro.
Molto presto c'era un gran via vai di gente, e dopo il lavoro erano occupati per ore ed ore a commerciare carote finché, nelle loro case, non c'erano tutte le varietà di carote di cui avevano bisogno, odi cui pensavano di aver bisogno.
"Arrivederci e grazie!" dicevano tra loro i pigroni. Per loro non c'era più la catasta comune da cui potevano scroccare. Ma,da questa situazione, ognuno di loro imparò una lezione diversa. Alcuni dicevano, "Va bene, credo che dovrò proprio lavorare di più." Ma non era così semplice, perché ogni volta che un pigrone pentito cercava un campo per piantare le sue carote, c'era sempre qualcuno che diceva, "Ehi, ho sempre piantato io carote lì. Questo è il mio campo."
Altri, ogni volta che avevano fame, andavano semplicemente alle villette dei più ricchi e prendevano dalle cataste di carote. " Abbiamo sempre preso dalle cataste comuni. Se ora ce ne sono molte invece di una sola, vuol dire che ci sono molte cataste comuni. In ogni caso, prenderemo da lì quello che ci pare," dicevano.
Naturalmente i ricchi non gradivano molto questo atteggiamento, tanto che alcuni di loro incominciarono a costruire recinti intorno alle loro cataste di carote. E presto quasi tutti dovettero costruire un recinto attorno alla loro catasta, perché, più si costruivano recinti intorno alle cataste, più i pigroni, che volevano conservare le antiche usanze, continuavano a prendere quel che volevano dalle cataste che non erano cintate.
Molto presto chiunque avesse una catasta, aveva anche un recinto intorno ad essa. Ora dopo il lavoro, non c'era soltanto da occuparsi delle attività di commercio di carote, ma anche delle riparazioni e delle migliorie ai recinti e della sorveglianza per evitare che qualcuno li scavalcasse.
Molto presto alcuni incominciarono a lamentarsi, "Dopo il lavoro ci incontravamo sempre alla grande catasta di carote per raccontarci barzellette e giocare alla cavallina. Adesso, dopo il lavoro siamo bloccati in casa a sorvegliare le nostre carote e ad aggiustare i nostri recinti; e la mattina dopo siamo stanchi morti e non riusciamo a piantare le nostre carote come si deve. Non si sa come, ma ora abbiamo molto più da fare di prima, ma le carote non sono per niente più abbondanti."
E alcuni suggerivano che avrebbero dovuto tornare alle antiche usanze, con la grande catasta comune. " E' meglio nutrire pochi scrocconi pigri che logorarci continuamente per commerciare, sorvegliare ed aggiustare recinti!"
Ma i più ricchi dicevano, "No, se torneremo alle antiche abitudini significa che è consentito scroccare. Tutti vorranno scroccare, nessuno pianterà più carote e moriremo tutti di fame!"
"Ma non sarà così," dicevano altri. "per la maggior parte della gente è troppo noioso stare solo sdraiati al sole a fischiettare. Date retta a noi, soltanto pochi sono veramente pigri. In realtà coltivare carote è un divertimento!"
"No," dicevano i più ricchi, " Coltivare carote non è affatto un divertimento. Avere carote è un divertimento. Andate pure avanti a dividere le vostre carote con quei pigroni vagabondi se volete. Noi non abbiamo nessuna intenzione di abbattere i nostri recinti!"
"Beh," dicevano alcuni dei ricchi ma non troppo, "Se i veri ricchi non ci stanno, anche noi manterremo i nostri recinti. Non abbiamo tanto da poterlo dividere con i pigroni vagabondi."
E i poveri ma non troppo dicevano," Bene, se siamo gli unici disposti a dividere finirà che tutti avranno troppo poco. Non possiamo essere d'accordo. Ci dispiace, ma manterremo i nostri recinti."
Così non se ne fece nulla. E anche se la maggior parte di loro sapeva che ora tutti avevano più lavoro da fare e meno carote, non riuscirono a fare in modo di tornare alle antiche usanze.
Ma accaddero altre cose molto interessanti. Alcuni di quelli che non avevano grossi campi di carote andarono dai ricchi e dissero," Ascoltate, se ciascuno di voi mi dà un po' di carote tutti i giorni, in cambio farò la guardia alle vostre cataste."
E altri ebbero un'altra idea e dicevano, "Riparerò i recinti di chiunque mi dia carote!"
E ancora altri andavano di casa in casa dicendo," Datemi un po' delle vostre carote e io le commercerò per voi, se posso tenere una carota ogni cinque."
Così andò avanti per un po'; poi alcuni cominciarono a grattarsi la testa dicendo " Ora dovrei avere più tempo, ma devo piantare più carote per poter pagare chi ripara il recinto, il guardiano notturno e il commerciante di carote."
E ancora una volta alcuni proposero di tornare alle antiche abitudini e abbattere i recinti. Ma stranamente, non erano soltanto i più ricchi ad essere contrari all'idea, ma anche i più poveri, "Volete toglierci il lavoro?" protestavano quelli che riparavano i recinti.
Eh sì; e così lasciarono che le cose andassero avanti col nuovo sistema.
Perché
Quel tipo
Mi guarda in quel modo?
Ha paura di me?
Perché
Quel tipo
Ha paura di me?
Crede che voglia fargli del male?
Perché
Crede che voglia fargli del male?
Non ho mai fatto male a nessuno!
Non ho mai fatto male a nessuno,
se non volevano farmi del male!
Allora se quel tipo pensa che voglia fargli del
male,
è soltanto perché lo sa:
faccio male a chiunque
voglia farmi del male.
Allora: vuole farmi del male!
Credo che andrò dritto laggiù e lo colpirò sulla
bocca,
Così non potrà farmi del male.
Accidenti!
Il suo pugno era più veloce del mio!
Ora sono steso a terra.
Ma non vi avevo appena detto
Che voleva farmi del male?
Siamo un paese pacifico
E non attaccheremo mai nessuno.
A meno che
Qualcuno non ci attacchi.
Chiunque non intenda
Attaccarci,
non deve avere assolutamente paura di noi.
Chiunque voglia tentare
di proteggersi da noi,
dimostra che
ha paura di noi.
Chiunque abbia paura di noi,
quindi dimostra
che intende
attaccarci.
Vedete, è chiaro
Che dobbiamo attaccare chiunque
Si prepari a difendersi.
Sul pianeta Hortus vivevano il popolo delle Mele, il popolo delle Prugne, il popolo delle Pere, e il popolo dei Lamponi. Il popolo delle Mele si nutriva di salsa di mele, pasticcio di mele, marmellata di mele, e torta di mele. Il popolo delle Prugne si nutriva di salsa di prugne, pasticcio di prugne, marmellata di prugne e torta di prugne. E lo stesso accadeva per il popolo delle Pere e il popolo dei Lamponi.
Per un po' tutto andò per il meglio, ma un giorno il popolo delle Pere si sentì per così dire pieno fino agli occhi di marmellata di pere che non finiva mai. E uno del popolo delle Pere disse; "Sapete cosa vi dico? Dobbiamo diventare briganti!"
"Briganti? Ma cosa vuoi dire?"
"Semplice: stanotte, ci introdurremo furtivamente nel villaggio del popolo delle Prugne, e quando saranno tutti addormentati gli tenderemo un'imboscata e li suoneremo a dovere. Poi prenderemo tutte le prugne che potremo e fuggiremo. E finalmente potremo mangiare salsa di prugne, pasticcio di prugne, marmellata di prugne e torta di prugne."
"Bravo! Sarà divertente!"
E si raggiunsero furtivamente il villaggio del popolo delle Prugne, e quando tutti furono addormentati, piombarono sul villaggio, fecero irruzione nelle case, e le suonarono di santa ragione al popolo delle Prugne. Poi presero tutte le prugne che potevano portare e fuggirono.
Il popolo delle Prugne era spaventato a morte e triste. "Che cosa succede? Una cosa del genere non era mai accaduta."
"Che il popolo delle Pere sia diventato pazzo? Dobbiamo mandare da loro la Signora Picciolo!"
Dovete sapere che la vecchia Signora Picciolo sapeva fabbricare un unguento di nocciolo di prugna che poteva curare qualsiasi malattia, eccetto le gambe rotte.
Così la Signora Picciolo partì con il suo vaso pieno di unguento di nocciolo di prugna.
Ma alla sera era di ritorno "Non vogliono essere curati," disse. "Hanno minacciato di picchiarmi e mi hanno cacciato via."
"Che pasticcio! Che cosa faremo ora?"
"Se non vogliono essere curati allora non sono malati, sono soltanto cattivi. Dobbiamo punirli!"
"Sì, è proprio quello che faremo! Caleremo su di loro e prenderemo le loro pere. E' solo questione di giustizia!"
E tutti applaudivano gridando che era inevitabile, e soltanto la Signora Picciolo sembrava preoccupata e scuoteva la testa.
Così il popolo delle Prugne si mise sul sentiero di guerra, e quella notte sferrarono un attacco al popolo delle Pere e gliele suonarono di santa ragione. Poi presero tutte le pere che potevano portare e fuggirono.
"E cosa faremo se torneranno domani e ci attaccheranno di nuovo?" E tutti sembravano molto preoccupati, ma il giovane Signor Nòcciolo disse "Metteremo semplicemente delle guardie intorno al villaggio, con dei lunghi pali, e se verranno, gliele suoneremo."
Così fecero, e quando, alcune notti dopo il popolo delle Pere tornò, si beccò una brutta batosta.
"Bene, Proprio come vi dicevo! Gliele abbiamo suonate! Non oseranno tenderci un altro agguato per un po'."
"Molto bene. Ma sapete cosa vi dico: montiamo la guardia tutte le notti da due settimane, e dormiamo di giorno. Nel frattempo, abbiamo dato fondo a tutta la nostra torta di prugne, e a tutta la marmellata di prugne, e non abbiamo avuto un attimo di tempo per cucinare o cuocere!"
"Allora tutti dovrebbero darvi qualcosa, ragazzi, visto che voi avete fatto la guardia per tutti!"
Così tutto il popolo delle Prugne diede qualcosa alle guardie, e il Signor Nocciolo ebbe più di tutti. "Perché io ho dovuto occuparmi di tutto! Tutta la responsabilità è mia!"
Ma dopo un po' di tempo alcune Prugne cominciarono a brontolare perché prima c'era abbastanza per tutti, ma ora che tutti i giovani facevano la guardia in vece di curarsi degli alberi di prugne di cucinare e cuocere, non c'era più abbastanza per tutti.
"Bene, " disse il Signor Nocciolo, "Di chi è la colpa se tutti i nostri giovani non possono lavorare, ma devono montare la guardia? Del popolo delle Pere! E il popolo delle pere deve pagare per questo!"
E marciò con i suoi uomini sul villaggio del popolo delle Pere per una nuova razzia. Ma anche il popolo delle Pere aveva messo delle guardie, e ci fu una terribile zuffa a metà strada tra i due villaggi, e il popolo delle Prugne non riuscì ad arrivare alle pere.
Allora il signor Nòcciolo disse, " Dobbiamo tessere delle reti e gettarle oltre le guardie del popolo delle Pere. Così potremo sconfiggerli e saccheggiare il villaggio!"
Così tutto il popolo delle Prugne s'impegnò a tessere le reti, e questa volta il raid ebbe successo. Il Signor Nòcciolo guidava con orgoglio le truppe sulla via del ritorno, e ciascuno dei giovani portava sulle spalle un sacco di pere. Anche il Signor Nòcciolo portava qualcosa: la responsabilità.
Il Signor Nocciolo ordinò a tutti di scaricare le pere in una grossa catasta nel centro del villaggio. Poi divise la catasta in tre cataste più piccole. "Così" disse, " una catasta sarà divisa tra tutti gli abitanti in modo che ci sia da mangiare per tutti. Una catasta sarà divisa tra i miei soldati perché hanno combattuto con tanto valore. E una catasta è per me per che mi sobbarco la responsabilità di tutto."
E tutti acclamarono con entusiasmo il Signor Nòcciolo battendogli con fiducia sulla spalla. Soltanto la vecchia Signora Picciolo sembrava preoccupata e scotendo la testa, disse, " e cosa accadrà se anche il popolo delle Pere tesserà delle reti?"
"Tutto previsto! Costruiremo un muro attorno al villaggio, così non potranno mai più tenderci imboscate."
E così il popolo delle Prugne ebbe da costruire un muro che circondava l'intero villaggio.
Ma il quelli del popolo delle Pere non intendevano sopportare la vergogna della sconfitta. E quando le guide riferirono che il popolo delle Prugne stava costruendo un muro attorno al suo villaggio, anche il popolo delle Pere costruì un muro attorno al suo. E tessero reti per catturare le guardie. E costruirono anche delle scale a pioli per scalare il muro del popolo delle Prugne. E una notte, con le loro scale a pioli, invasero il villaggio del popolo delle Prugne e li derubarono di tutto ciò che avevano.
"Adesso basta! Dobbiamo dare a queste pappamolle di pere una lezione da cui non si riprenderanno mai più." E il Signor Nocciolo ordinò al popolo delle Prugne di costruire una grossa torre con le ruote. Aveva intenzione di accostarla al muro del villaggio del popolo delle Pere, e lanciare palle di fuoco sulle case del popolo delle Pere. Ma, nel frattempo, il popolo delle Pere stava costruendo una grossa catapulta che aveva intenzione di usare per demolire il muro del villaggio del popolo delle Prugne.
E una notte, l'esercito del popolo delle Prugne si avvicinò furtivamente al villaggio del popolo delle Pere, e l'esercito del popolo delle Pere si avvicinò furtivamente al villaggio del popolo delle Prugne. E siccome era una notte scura e nebbiosa, gli eserciti sfilarono uno accanto all'altro senza accorgersene. Dopo che il popolo delle Prugne ebbe innalzato la sua torre davanti al muro del popolo delle Pere, il Signor Nocciolo si arrampicò fino sulla cima e tuonò, "Aprite i cancelli e arrendetevi, o daremo fuoco all'intero villaggio."
E visto che l'esercito del popolo delle Pere non era lì, i cittadini aprirono i cancelli e lasciarono entrare il popolo delle Prugne.
E dopo che il popolo delle Pere ebbe issato la catapulta sul muro del villaggio del popolo delle Prugne il loro capo scrisse su un foglio di carta: "Arrendetevi, o metteremo sotto tiro l'intero villaggio! E avvolse il foglio attorno ad una pietra che sparò di là dal muro. E anche il popolo delle Prugne aprì i cancelli e lasciò entrare il popolo delle Pere.
Ma al momento di saccheggiare i villaggi, entrambi gli eserciti trovarono ben poco. Soltanto pochi vasi di marmellata di mele o di marmellata di prugne, poche torte mezze secche, e qualche avanzo di pasticcio, ma anche questi erano belli che ammuffiti.
"Non c'è rimasto nulla, " dissero quelli del popolo delle Pere ai soldati delle Prugne. "Non abbiamo avuto tempo di cucinare o curare gli alberi. La guerra si è presa tutto il nostro tempo.
"Non abbiamo nulla, " dissero quelli del popolo delle Prugne ai soldati delle Pere. "non abbiamo avuto tempo di occuparci degli alberi o di cucinare torte. La guerra si è presa tutto il nostro tempo."
"Canaglie!" disse il comandante dei soldati del popolo delle Pere e prese la via del ritorno.
"Dannazione!" disse il Signor Nocciolo e guidò il suo esercito sulla via del ritorno.
Allo spuntar del giorno, entrambi gli eserciti s'incontrarono a metà strada tra i due villaggi, e siccome erano affamati, cominciarono a caricare le armi. Ma i due comandanti in campo non si intromisero. Entrambi si piazzarono su di una collinetta a meditare, scambiandosi occhiatacce.
Quando si accorsero che i due eserciti si azzuffavano ormai da un bel po', comandarono la ritirata e marciarono tutti verso casa.
Il giorno dopo il Signor Nocciolo chiamò a raccolta il popolo delle Prugne e disse, " Dobbiamo metterci subito al lavoro e cucinare in fretta e furia delle torte di prugne. Dobbiamo essere più veloci del nemico, così saremo pronti prima di loro per la prossima battaglia!"
Ma la Signora Picciolo disse, "Non possiamo perché non ci sono abbastanza prugne visto che nessuno si è preso cura degli alberi. Sono tutte marce al suolo. E non c'è neanche farina per le torte, e in ogni caso, non si può andare avanti così. Che senso ha rubare gli uni agli altri? Se vogliamo avere abbastanza da mangiare, noi tutti dovremo lavorare tutto il giorno; e così pure il popolo delle Pere. Il brigantaggio non fa crescere né prugne, né mele. Dobbiamo fare la pace col popolo delle Pere!"
E il popolo delle Prugne, che finalmente voleva ricominciare a prendersi cura degli alberi di Prugne e a cucinare di nuovo pasticci era d'accordo con lei.
Il Signor Nocciolo fu l'unico ad arrabbiarsi. Se non c'era più guerra, lui non poteva più comandare e sobbarcarsi tutta la responsabilità, e non ci sarebbe stato più niente di cui avrebbe potuto prendere la parte del leone.
Se ne andò al villaggio del popolo dei Lamponi e disse, "Statemi bene a sentire, Il popolo delle Pere non ha più nulla da mangiare. Hanno speso tutte le loro forze nella guerra e quindi correte il grosso rischio di essere le prossime vittime delle loro ruberie!"
Quelli del popolo dei Lamponi si grattavano la testa dicendo, "Non gli abbiamo fatto nulla!"
"Non importa, " diceva il Signor Nocciolo." Sono dei predoni e cercheranno il loro bottino ovunque possano trovarlo."
"E' terribile!" disse il popolo dei Lamponi "Cosa mai dovremmo fare? Noi non capiamo nulla di come fare la guerra."
"Ma noi sì" disse il Signor Nocciolo. " Ho un'idea: dateci qualche staio di lamponi- e noi vi proteggeremo dal popolo delle Pere."
"D'accordo" sospirarono quelli del popolo dei Lamponi. "Non abbiamo altra scelta!"
E così il Signor Nocciolo tornò al villaggio dal popolo delle Prugne e disse "Ci vorrà almeno un anno per il prossimo raccolto di prugne! Come pensate di vivere nel frattempo? Se faremo la pace, avremo fame per un anno intero! Ma se stringeremo alleanza col popolo dei Lamponi per combattere il popolo delle Pere, avremo subito dei lamponi."
" Certo, così è meglio, " gridarono i giovani che erano già abituati a combattere. "Siamo più bravi a combattere che a coltivare prugne."
Il resto del popolo delle Prugne si grattava la testa e diceva: "Avere fame per un anno intero! Chi lo sopporterebbe?" E anche loro concordarono con il Signor Nocciolo.
Soltanto la Signora Picciolo sembrava preoccupata e scrollava la testa.
Ma, nel frattempo, il comandante in capo del popolo delle Pere aveva stretto un'alleanza col popolo delle Mele. E così cominciò tutto daccapo: anche il popolo dei Lamponi e il popolo delle Mele si diedero da fare a costruire muri attorno ai loro villaggi, e a tessere reti, e a costruire catapulte e torri per gli assedi, e oltre tutto dovevano dare metà della loro frutta a chi li proteggeva. E alla fine dell'anno non c'era più niente da mangiare e niente da rubare sull'intero pianeta.
Allora la Signora Picciolo chiamò a raccolta tutte le donne del pianeta - era possibile perché c'erano solo quattro villaggi- e disse,
"Non possiamo andare avanti così: rubare e combattere non fa crescere prugne, lamponi, mele e pere. Qualcuno deve lavorare o non ci saranno neppure più bottini. E siccome c'è soltanto quanto basta da mangiare se tutti fanno il loro lavoro, non possiamo permetterci tutte queste ruberie! Non si possono mangiare reti, scale a pioli, catapulte muri e torri da assedio!"
"E' vero" dissero le donne.
"Allora dite ai vostri mariti che dovrebbero stringersi la mano e tornare subito ai frutteti, o moriremo tutti di fame!"
"D'accordo." Dissero le donne.
E così si stipulò un trattato, e gli uomini si strinsero la mano mormorando, " Scusate, non accadrà mai più." E così la pace tornò sul pianeta Hortus. E dopo due, forse tre anni, c'era di nuovo da mangiare per tutti, e la Signora Picciolo regalava vasi di marmellata di prugne agli altri villaggi, e le donne degli altri villaggi mandavano torta di mele e salsa di pere e pasticci di lamponi.
E visto che la pace perdurava, la gente aveva il tempo per riflettere un e inventare cose. Uno inventò delle pinze speciali da usare per raccogliere le mele senza arrampicarsi sugli alberi. E un altro selezionò una varietà di cespuglio di lamponi senza spine. E un altro inventò un attrezzo per disossare le prugne con facilità. E un altro ancora inventò uno speciale coltello per sbucciare le pere.
"Che meraviglia, " dicevano le donne, " ora tutti possono lavorare mezza giornata e c'è comunque abbastanza per tutti."
Ma un giorno il Signor Nocciolo si alzò e disse al popolo delle Prugne, "Non va per niente bene. La gente gironzola senza far niente per mezza giornata solo perché è più semplice lavorare col nuovo disossatore. Che cosa accadrebbe se quelli del popolo delle Pere decidessero di invaderci e ci obbligassero a lavorare per loro l'altra metà della giornata? Il popolo delle Pere ha inventato un nuovo attrezzo per sbucciare le pere e questo costituisce un gran pericolo; se non devono più lavorare tutto il giorno per mangiare, ora hanno il tempo di costruire nuove torri da assedio e catapulte! Non possiamo passare metà della giornata giocando e raccontandoci barzellette: grazie nostro nuovo disossatore di prugne abbiamo tutto il tempo di organizzare la nostra difesa. Invece di lavorare solo mezza giornata, sarebbe meglio se la metà di noi lavorasse tutto il giorno, e l'altra metà costruisse catapulte e si dedicasse a esercizi di addestramento. Ora possiamo permetterci di avere un esercito fisso. E' l'unico modo per proteggerci da un altro attacco del popolo delle Pere che un giorno ci renderà schiavi!"
E così sarebbe ricominciato tutto daccapo se.
. se la Signora Picciolo non si fosse alzata e, davanti a tutti, non avesse assestato un sonoro ceffone al Signor Nocciolo che sedette zitto e buono e non disse mai più una parola.
Due tizi se le stavano dando di santa ragione. Uno era possente e l'altro era grasso. Uno era pesante, l'altro era massiccio. Uno era forte, l'altro era rabbioso.
Quello forte ruppe il naso al rabbioso e pensò: "Ha un naso come il mio".
Il rabbioso ruppe le costole a quello forte e pensò: "Queste costole si rompono proprio come le mie".
Quello forte cavò un occhio all'altro e pensò: "Quest'occhio è tenero e delicato come il mio".
Il rabbioso assestò un calcio nello stomaco dell'avversario e pensò: "Questo stomaco è morbido proprio come il mio."
Quello forte afferrò per la gola il rabbioso e pensò: "Ha bisogno di respirare, proprio come me."
Il rabbioso sferrò un pugno al cuore di quello forte e pensò: "Il suo cuore batte proprio come il mio." Quando entrambi caddero a terra, così esausti da non potersi rialzare, pensarono: "Questo tipo è proprio come me". Ma ormai non si poteva più tornare indietro.
Il giorno in cui reclutarono il Signor Balaban, il sergente che comandava l'esercitazione annunciò, "Allora, oggi praticheremo il combattimento uomo a uomo. Il momento cruciale per voi, sarà quello in cui il pallone salirà!"
"Ah," replicò il Signor Balaban, "se il combattimento uomo a uomo comincia quando il pallone sale - non potreste mostrarmi il mio uomo prima? Forse lui ed io potremmo sistemare le cose!"
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Deboli e stanchi nel cuore gli Gnuff rosa arrancavano verso casa. "Niente più guerre. Mai più!" si lamentavano. Avevano perso la guerra. |
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Deboli e tristi, anche i Moffer rossi brontolavano "Niente più guerre. Mai più!"anche se avevano vinto la guerra. |
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"Mandiamo in pensione il nostro generale!" gridavano gli Gnuff alla loro cerimonia |
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"Licenziamo il nostro maresciallo!"urlavano i Moffer alla loro cerimonia. |
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" I soldati coltiveranno fragole!" tuonavano gli Gnuff |
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"Daremo ai soldati macchine da cucire!" esclamavano i Moffer. |
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Ma il generale degli Gnuff diceva, "Non potete farlo. Se non avremo più soldati e generali, i Moffer ci piomberanno addosso in un batter d'occhio. Dobbiamo mantenere un esercito forte e in guardia, così non ci sarà mai un'altra guerra!" |
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E il feldmaresciallo dei Moffer diceva. "Non potete farlo. Quando gli Gnuff si accorgeranno che non abbiamo più un esercito, si prenderanno di certo la rivincita per la guerra perduta. Perciò abbiamo bisogno di soldati e di un feldmaresciallo." |
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"Ah, beh, avrai di certo ragione, " borbottavano gli Gnuff. |
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" Avrà sicuramente ragione." Mormoravano i Moffer. |
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E il Generale degli Gnuff diceva Tra sé e sé, "Non voglio un'altra guerra, Ma se non dimostro di essere un generale Capace, mi manderanno in pensione." E disse Al Presidente Supremo, "Il nostro esercito Ha bisogno di più spade, così non subiremo Più attacchi. Aumenta le tasse, così potremo Comprare più spade dai fabbri." E così fece il Presidente Supremo. E i fabbri Dicevano tra sé e sé, "Noi non vogliamo Un'altra guerra, ma se venderemo molte spade, potremo mandare i nostri bambini a scuole più esclusive." E gli operai dei fabbri dicevano tra sé e sé, "noi non vogliamo un'altra guerra, ma se diremo che non vogliamo più fabbricare spade, i nostri capi ci licenzieranno, e i nostri bambini non avranno più nulla da mangiare." |
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E il feldmaresciallo dei Moffer diceva tra sé e sé, " Io voglio la pace, ma se non dimostro di essere un feldmaresciallo capace, potrebbero congedarmi." E disse al Gran re dei Moffer, " ho sentito che gli Gnuff comprano spade per il loro esercito. Ti prego, aumenta le tasse, così potremo attirare più soldati nell'esercito." Il Gran Re aumentò le tasse e più persone si arruolarono. E i contadini Moffer dicevano tra sé e sé, " Noi vogliamo la pace, ma se non venderemo patate all'esercito, non riusciremo a pagare le nuove tasse." E i sarti dicevano, "Noi vogliamo la pace. Ma più soldati ci sono nell'esercito, più uniformi venderemo." E i fabbricanti di lance dicevano, "Noi vogliamo la pace, ma più soldati ci sono, più lance venderemo: " |
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E accadde che un inventore Gnuff Scoprì un veleno, un veleno terribile e potente, che però non era nocivo per gli Gnuff. Era mortale soltanto per i Moffer. "Non voglio fare del male a nessuno," diceva l'inventore tra sé e sé, "ma se no rendo pubblica la mia invenzione, non riuscirò a pagare la lattaia." E scrisse un libro in cui si spiegava come produrre quel veleno. |
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E accadde che un professore Moffer scoprì come costruire una bomba in grado di distruggere qualsiasi cosa, ma innocua per i Moffer che vivevano nelle caverne. "Non voglio danneggiare nessuno, " diceva il professore tra sé e sé, " ma devo rendere pubblica la mia scoperta, o tutti penseranno che non sono un bravo scienziato." E scrisse un libro in cui spiegava come costruire la bomba. Quando il feldmaresciallo Moffer lo seppe, disse al Gran re, "Dobbiamo assolutamente costruire questa bomba, perché so che gli Gnuff hanno un terribile veleno che possono usare contro di noi." |
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E il generale Gnuff disse al Presidente Supremo, " Dobbiamo assolutamente produrre questo veleno, perché so che i Moffer hanno una bomba pericolosa che possono usare contro di noi." |
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E così il veleno fu realizzato. |
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.E la bomba costruita. |
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E gli Gnuff costruirono un grosso fucile da spruzzo in grado di spargere il veleno sui Moffer. |
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E i Moffer costruirono un grosso pallone in grado di trasportare la bomba fino agli Gnuff |
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Poi il Presidente Supremo degli Gnuff Tenne un discorso, " Non ci sarà mai più una Guerra, perché noi tutti vogliamo la pace, e perché I Moffer non oseranno attaccarci, ora che Abbiamo il terribile veleno." |
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E Il Gran re dei Moffer tenne un discorso, "Saremo in pace per sempre, perché nessuno di noi vuole la guerra, e gli Gnuff non oseranno mai attaccarci, ora che abbiamo la terribile bomba." |
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Un giorno i fabbri Gnuff dissero, " Non abbiamo più ferro sufficiente per costruire tutte le spade e gli aratri e le falci e i carri che riuscivamo a costruire. Dobbiamo andare all'isola del ferro e fare rifornimento!" |
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E i fabbri Moffer dicevano "Abbiamo bisogno di più ferro per le nostre lance e i nostri carri e gli aratri e le falci. Dobbiamo prendere del ferro sull'isola del ferro!" |
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Così gli Gnuff mandarono una nave All'isola del ferro. |
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.E anche i Moffer mandarono una nave all'isola del ferro. |
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"I Moffer prendono il nostro ferro!" Annunciò un giornale Gnuff. |
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"Gli Gnuff vogliono tutto il ferro per loro!" annunciò un giornale Moffer. |
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E ancora una volta, i Moffer Ebbero paura degli Gnuff. |
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.e gli Gnuff ebbero paura dei Moffer. |
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"L'isola del ferro deve diventare nostra," si mormorava tra gli Gnuff, "o non potrà esserci pace: " |
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"L'isola del ferro deve appartenere a noi, " si vociferava tra i Moffer, " o ci sarà un'altra guerra!" |
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"Se non abbiamo ferro per gli aratri, non avremo nulla da mangiare," si diceva tra gli Gnuff, " e il nostro terribile veleno non servirà a nulla!" |
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"Se non abbiamo ferro, moriremo di stenti, " si vociferava tra i Moffer, "e la nostra terribile bomba non ci porterà alcun giovamento." |
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E gli Gnuff inviarono una nave da guerra All'isola del ferro. |
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.e i Moffer mandarono una nave da guerra all'isola del ferro. |
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E quando la battaglia non si risolveva A favore di nessuno. |
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e i Moffer inviarono un'altra nave da guerra. |
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"Non possiamo permettergli di costruire navi da guerra!" diceva il generale degli Gnuff e, con le sue truppe, attaccò il cantiere navale dei Moffer. |
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"Dobbiamo impedirgli di costruire navi, " diceva il feldmaresciallo dei Moffer, e, con le sue truppe, attaccò il cantiere navale degli Gnuff. |
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"Ci hanno attaccati!" tuonavano gli Gnuff. |
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"Ci hanno attaccati" tuonavano i Moffer. |
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"Noi volevamo la pace," diceva il generale degli Gnuff, " ma adesso è troppo tardi. Dobbiamo spruzzare il nostro veleno, prima che sgancino la loro bomba su di noi!" |
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"Noi non volevamo la guerra!" diceva il feldmaresciallo dei Moffer, "ma adesso è troppo Tardi. Dobbiamo sganciare la Bomba prima che spruzzino il loro veleno." |
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E caricarono il fucile a spruzzo. |
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.E lanciarono il grande pallone. |
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"Ora hanno fatto il loro gioco!" dicevano gli Gnuff. |
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Hanno fatto il loro gioco!" dicevano i Moffer. |
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"E anche noi!" dicevano gli Gnuff mentre guardavano il loro Pallone alzarsi lentamente. |
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"E anche noi!" dicevano i Moffer mentre guardavano il loro fucile a spruzzo gigante apparire all'orizzonte. |
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"Forse, tutto sommato, non avrei dovuto inventare quel veleno" diceva l'inventore |
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" Forse, tutto sommato, non avrei dovuto inventare la bomba!" diceva il professore. |
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"Forse non avremmo dovuto fabbricare le spade!" dicevano i fabbri.
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"Forse non avremmo dovuto fabbricare le lance" dicevano i fabbricanti di lance. |
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"Forse non avremmo dovuto cucire le uniformi!" dicevano i sarti. |
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"Forse non avremmo dovuto consegnare le patate, " dicevano i contadini. |
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"Forse non avremmo dovuto esagerare tanto" dicevano i giornalisti. |
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"Forse avremmo dovuto attenerci di più alla verità" dicevano i cronisti delle riviste. |
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"Forse avremmo dovuto mandare in pensione il nostro generale" dicevano gli Gnuff. |
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"Forse avremmo dovuto licenziare il nostro feldmaresciallo!" dicevano i Moffer. |
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E uno Gnuff disse ai suoi amici, "Non possiamo più salvarci. Ma i Moffer- loro non sono stati più stupidi o meschini di noi." E si arrampicarono sul fucile a spruzzo, e lo buttarono giù, proprio un istante prima che cominciasse a spruzzare. |
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E alcuni Moffer dicevano l'un l'altro, "Stiamo per morire per la nostra stupidità. Ma almeno gli Gnuff devono sapere che c'erano alcuni Moffer rispettabili." E afferrata saldamente la fune, si arrampicarono sul pallone e fecero esplodere la bomba prima che raggiungesse gli Gnuff. |
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"I Moffer ci hanno salvati!" dissero gli Gnuff attoniti quando videro che la bomba Non li aveva colpiti. |
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"Gli Gnuff hanno sacrificato la vita per noi!" mormoravano i Moffer completamente confusi, quando notarono che il veleno non li aveva colpiti. |
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Un uomo aveva uno schiavo che doveva sbrigare per lui tutte le faccende domestiche. Lo schiavo lo lavava, lo pettinava, gli tagliava il cibo in pezzetti e lo imboccava. Lo schiavo scriveva le lettere per il suo padrone, gli lucidava le scarpe, gli rammendava i calzini, spaccava la legna da mettere nella stufa. Se l'uomo vedeva dei lamponi durante una passeggiata, lo schiavo doveva raccoglierli e metterglieli in bocca. Per impedire allo schiavo di scappare, l'uomo lo teneva sempre incatenato. Giorno e notte lo doveva tenere stretto e se lo trascinava appresso, perché altrimenti sarebbe fuggito. Nell'altra mano l'uomo teneva una frusta, perché quando lo schiavo dava degli strattoni alla catena, l'uomo doveva picchiarlo. Poi, quando le braccia gli facevano male ed era stanco di frustarlo, l'uomo imprecava contro lo schiavo, la catena e, in generale, contro tutto.
A volte l'uomo sognava segretamente del tempo in cui era ancora giovane e non aveva ancora uno schiavo. A quei tempi poteva ancora vagare per i boschi, libero come un uccello, e poteva raccogliere lamponi senza continuamente tirare e trascinare la catena. Adesso non poteva andare da solo nemmeno al gabinetto, perché lo schiavo sarebbe scappato via. E poi, chi gli avrebbe pulito il sedere? Lui non aveva mani libere per farlo.
Una volta, mentre si lamentava così, qualcuno gli disse: "Insomma, se è così terribile, perché non liberi lo schiavo?"
"Certo - disse l'uomo - così lui potrà uccidermi!" Ma segretamente l'uomo sognava la libertà.
E lo schiavo? Sognava anch'egli la libertà? No, aveva smesso di sognarla da molto tempo. La sola cosa che sognava era di essere lui stesso il padrone e di trascinare l'uomo in catene, di frustarlo e di farsi pulire il sedere. Questo era ciò che sognava!
Tra i luoghi che il mullah Nasreddin Hodja visitò nei suoi viaggi, c’era un villaggio i cui abitanti erano noti per essere particolarmente esperti nei calcoli. Nasreddin trovò alloggio presso la casa di un contadino. Il mattino dopo Nasreddin si accorse che nel villaggio non c’era un pozzo. Ogni mattina, un membro di ogni famiglia del villaggio caricava uno o due asini con delle brocche per l’acqua vuote, raggiungeva un ruscello ad un’ora di cammino dal villaggio, riempiva le brocche, e le riportava indietro, impiegando un’altra ora.
“Non sarebbe meglio se aveste l’acqua nel villaggio, ” chiese l’hodja al contadino presso il quale abitava.
“Oh, molto meglio, ” disse il contadino. “ogni giorno l’acqua mi costa due ore di lavoro per l’asino e per il ragazzo che lo conduce. In totale 1.460 ore l’anno, se calcoliamo l’asino uguale al ragazzo. Se l’asino e il ragazzo impiegassero quel tempo a lavorare nei campi, io potrei, per esempio, piantare un intero campo di zucche e raccogliere 457 zucche in più ogni anno.”
“Mi pare che voi abbiate previsto ogni cosa per bene, ” disse l’hodja con ammirazione.” E allora, perché non scavare un canale che porti l’acqua al villaggio?”
“Non è così semplice”, disse il contadino. “Sulla strada c’è una collina che dovremmo scavare e togliere. Se utilizzassi ragazzo e asino per scavare un canale, piuttosto che mandarli per acqua, ci metterebbero 500 anni, lavorando due ore al giorno. Io potrò forse campare ancora trent’anni, quindi mi costa molto meno farli portare l’acqua.”
“Sì, ma sarebbe compito soltanto tuo scavare un canale? Ci sono molte famiglie in questo villaggio.”
“Certamente, ” disse il contadino, “ci sono esattamente 100 famiglie. Se ogni famiglia mandasse un ragazzo e un asino ogni giorno per due ore, ci vorrebbero cinque anni per finire il canale. E se lavorassero dieci ore al giorno, per finirlo ce ne vorrebbe uno.”
“Allora perché non parli con i tuoi compaesani e gli suggerisci di scavare il canale tutti insieme?”
“Dunque, se devo discutere una questione importante con un compaesano, lo invito a casa mia, gli offro tè e halvah, parliamo un po’ del tempo e delle previsioni per il prossimo raccolto, poi si parla della sua famiglia, delle sue figlie, e dei suoi nipoti. Poi gli offro il pranzo, e dopopranzo prendiamo di nuovo il tè. Poi lui s’informa della mia fattoria e della mia famiglia, poi arriviamo al punto, con piacere e con calma. Per tutto questo ci vuole un intero giorno. Siccome nel villaggio ci sono 100 famiglie, Io dovrei parlare con 99 capofamiglia. Devi ammettere che non posso permettermi di passare novantanove giorni di seguito in queste discussioni. La mia fattoria andrebbe alla malora. Il massimo che possa fare è invitare a casa mia un compaesano alla settimana. Ma se un anno ha cinquantadue settimane, mi ci vorrebbero almeno due anni per parlare con tutti i miei compaesani. Conoscendo i miei compaesani, tutti alla fine concorderebbero che sarebbe meglio avere l’acqua nel villaggio, perché ci sanno tutti fare coi numeri. E conoscendoli bene, ognuno di loro si impegnerebbe a partecipare all’impresa, se anche gli altri lo facessero. Insomma, dopo due anni dovrei cominciare tutto daccapo. Dovrei invitarli a casa mia e riferire che anche gli altri sono d’accordo a partecipare.”
“E’ vero, ” disse l’hodja, “ ma dopo due anni sareste pronti per cominciare il lavoro. E dopo ancora un anno, il canale sarebbe finito!”
“Esatto, ” disse il contadino. “Così gli scansafatiche trarrebbero dal canale lo stesso vantaggio degli altri, ma senza la spesa.”
“Devo ammettere che è così, ” disse l’hodja.
“Così chiunque ci sappia fare coi numeri cercherà di sottrarsi al proprio dovere. Un giorno l’asino zoppicherà. Un altro giorno il figlio di qualcuno avrà la tosse. E poi si ammalerà la moglie di qualcun altro, e ci sarà bisogno del ragazzo e dell’asino per condurre il dottore. Ma nel nostro villaggio, tutti ci sanno fare coi numeri, così ognuno cercherà di evitare di fare la sua parte. E siccome ognuno di noi sa che gli altri non si ammazzeranno di lavoro, nessuno manderà il suo ragazzo e il suo asino a lavorare. Quindi i lavori per il canale non cominceranno mai.”
“Devo ammettere che i tuoi argomenti sembrano assai convincenti, ” disse l’hodja. Rimuginò per un po’, e d’improvviso esclamò, “Ma io conosco un villaggio, dall’altro versante dei monti, che ha esattamente gli stessi vostri problemi, ma sono vent’anni che c’è un pozzo.”
“Bene, ” disse il contadino, “evidentemente non ci sanno fare coi numeri.”
Su di un pianeta straniero o in un tempo che fu c'erano una volta due paesi che si chiamavano Qui e Là. C'erano anche altri paesi, come Vicino e Lontano, ma questa storia riguarda Qui e Là.
Un giorno l'Alto e Potente di Qui pronunciò un discorso davanti agli abitanti del suo paese. Disse che lo Stato di Qui era minacciato dallo Stato di Là e che i Quiesi non potevano più rimanere fermi in attesa a guardare lo Stato di Là usare le sue linee di confine per premere e ridurre il territorio dello Stato di Qui.
"Sono così vicini a noi che non abbiamo neanche posto per respirare!" tuonava. "Siamo così stretti da riuscire a mala pena a muoverci. Loro non hanno nessuna intenzione di spostarsi di un solo centimetro per darci un po' di spazio che ci garantisca un minimo di libertà di movimento. Ma se non vogliono fare nemmeno questo per noi, dovremmo obbligarli."
Noi non vogliamo la guerra; se dipendesse da noi, la pace non avrebbe mai fine. Ma mi dispiace: non dipende da noi. Se non vogliono spostare un pochino i loro confini, allora ci obbligheranno ad entrare in guerra. Ma noi non vogliamo essere trascinati in una guerra. Non noi! Non gli permetteremo di costringerci a sacrificare nostri figli così insensatamente da ridurre le nostre donne a vedove e i nostri bambini a orfani! Ecco perché dobbiamo togliere potere a Là prima di essere trascinati in un conflitto. Ed ecco perché, cari connazionali, per difendere noi stessi, per proteggere la pace, per salvare i nostri bambini, Io dichiaro formalmente guerra allo Stato di Là!"
I Quiesi, confusi si guardarono l'un l'altro. Poi guardarono il loro Alto e Potente. E infine guardarono le truppe speciali di polizia con i loro elmetti corazzati e con i loro esplosivi al laser sterminatore. E rimasero lì, in piedi intorno alla piazza principale della città, applaudendo con entusiasmo e gridando, "Lunga vita all'Alto e Potente! Abbasso i Laesi!"
E guerra fu.
Quello stesso giorno, l'esercito dei Quiesi attraversò il confine. Era una vista maestosa! I veicoli corazzati sembravano giganteschi pesci drago. Distruggevano tutto ciò che trovavano sul loro cammino. Dalla bocca dei loro cannoni potevano sparare granate che straziavano qualsiasi cosa, e potevano vomitare gas velenosi in grado di annullare chiunque. Ognuno di loro lasciava dietro di sé una vastissima zona di morte.
Davanti a loro, foreste verdi lussureggianti; dietro di loro, nulla.
Dove gli aerei passavano, il cielo diventava grigio; la gente al di sotto, si buttava a terra, terrorizzata dal solo rumore. E dove calava l'ombra, calavano le bombe.
Tra i giganteschi aerei nel cielo e i veicoli corazzati a terra, ronzavano sciami di elicotteri, come zanzare minuscole e malevole. I soldati sembravano robot d'acciaio da combattimento nelle loro stanze corazzate che li rendevano invulnerabili alle pallottole, ai gas, al veleno, e alle armi batteriologice.
Tenevano fra le mani armi da combattimento individuale che potevano sparare cartucce mortali o raggi laser che fondevano tutto ciò che incontravano.
Così avanzava l'inarrestabile esercito di Qui, deciso a distruggere ogni nemico senza pietà. Ma, stranamente, non trovò nemici.
Il primo giorno l'esercito avanzò di dieci chilometri nel territorio nemico, il secondo, di venti. Il terzo giorno attraversò un grosso fiume. Ovunque, trovarono soltanto villaggi abbandonati, campi mietuti, fabbriche deserte, magazzini vuoti. "Si nascondono, e quando saremo passati ci attaccheranno alle spalle!" tuonava l'Alto e Potente. "Cercate in tutti i fienili e in tutti i mucchi di letame!"
I soldati frugarono i mucchi di letame, ma l'unica cosa che trovavano erano mucchi di documenti d'identità; patenti di guida, certificati di nascita, passaporti, fototessera, documenti scolastici; ricevute di pagamento di permessi per cani, e per televisioni via cavo, e centinaia di documenti di altro tipo. E le foto erano state ritagliate dai documenti a cui appartenevano. Nessuno era in grado di dire che cosa significava tutto quello.
Un grosso problema era dato dal fatto che tutti i segnali di indicazione di direzione erano stati sradicati o girati nella direzione sbagliata o cancellati. Alcuni però erano giusti così non era possibile nemmeno stabilire un senso nell'errore. I soldati cominciavano a perdersi, interi battaglioni non erano in grado di trovare una direzione, le divisioni perdevano la strada, e più di un generale si disperava e mandava motociclisti ovunque a cercare i disertori. L'alto e Potente si vide costretto a convocare topografi e insegnanti di geografia che tracciassero cartine appropriate dei paesi conquistati.
Il quarto giorno della campagna, i soldati di Qui catturarono il primo prigioniero. Non era un soldato, ma un civile trovato in un bosco con un cesto per funghi sulle spalle. L'Alto e Potente ordinò che l'uomo fosse condotto in sua presenza per interrogarlo personalmente. Il prigioniero disse di chiamarsi John Smith e di lavorare come raccoglitore di funghi. Dichiarò di aver perduto la sua carta d'identità e di non sapere dove si trovasse l'esercito dei Laesi.
Nei giorni immediatamente successivi, l'esercito dei Quiesi catturò alcune migliaia di civili. Tutti si chiamavano John o Jane Smith, e nessuno di loro era in possesso di documenti d'identità. L'alto e Potente era molto agitato.
Finalmente l'esercito di Qui occupò la prima grande città. Dappertutto si vedevano soldati dipingere i nomi delle strade sui muri. I servizi segreti avevano dovuto spedirgli le cartine della città. Ovviamente, data la fretta, facevano molti errori e ad alcune strade fu dato un nome dalla parte destra e un altro dalla parte sinistra, un nome a monte ed un altro a valle.
Battaglioni di soldati vagavano per la città senza meta, alla loro testa un sergente preoccupato con una cartina della città tra le mani. In linea di massima, nella città non funzionava nulla. La centrale elettrica non era operativa e né la società del gas, né la compagnia del telefono lo era. Nulla funzionava.
L'Alto e Potente annunciò immediatamente che lo sciopero era proibito e che tutti dovevano andare a lavorare senza indugio.
E la gente andò in fabbrica e in ufficio, ma ancora nulla funzionava. Quando i soldati andavano sul posto e chiedevano, "Perché non funziona nulla qui?" la gente diceva, "l'ingegnere non c'è" oppure" il capo tecnico non c'è" oppure "La signora Tal dei tali, la direttrice, non c'è."
Ma come si poteva trovare la signora Tal dei Tali se tutte le donne si chiamavano Jane Smith? L'Alto e Potente annunciò che chi usava un nome e un titolo falsi, sarebbe stato fucilato. Così i Laesi non si fecero più chiamare Smith, ma usavano qualsiasi vecchio nome, ma era quello giusto?
Più l'esercito avanzava nel paese, più tutto diventava difficile. Molto presto, non si trovò più cibo fresco per i soldati; Bisognava importare tutto da Qui. La ferrovia non funzionava. I ferrovieri gironzolavano oppure mandavano i motori avanti e indietro senza senso. I macchinisti non sapevano decidere chi doveva guidare le carrozze e, naturalmente, tutti i capi che si pensava sapessero come far funzionare le cose, erano scomparsi. Nessuno riusciva a trovarli.
Quando l'Alto e Potente se ne rese conto, montò su tutte le furie e, quasi con la bava alla bocca, emise un ordine che proibiva a tutti i soldati di abbandonare i loro quartieri eccetto quando uscivano di pattuglia con le loro unità. I soldati non erano per niente contenti.
Infine l'esercitò occupò la capitale di Là. Ma anche qui tutto era come nel resto del paese. Non c'erano segnali stradali, né numeri civici, né cognomi sulle porte di casa. Non c'erano direttori, ingegneri, capi tecnici, né poliziotti e ufficiali pubblici. Gli uffici governativi erano vuoti, e tutti gli archivi scomparsi. Nessuno sapeva dove si trovasse l'amministrazione statale.
L'Alto e Potente decise che era venuto il momento di diventare spietati. Annunciò che tutti gli adulti avrebbero avuto l'obbligo di andare in fabbrica e in ufficio. Chiunque rimanesse a casa sarebbe stato fucilato.
Quindi lui stesso andò alla centrale elettrica e ordinò a tutti i soldati e agli ufficiali che in patria avevano avuto qualcosa a che fare con le centrali elettriche, di recarsi lì. Parlò agli operai e poi garantì che l'elettricità sarebbe tornata in capo a due ore. Gli ufficiali davano ordini, i soldati sovrintendevano, e gli operai della centrale correvano avanti e indietro facendo esattamente quello che gli ufficiali ordinavano di fare. Naturalmente il risultato fu un terribile caos , e niente elettricità.
Allora l'Alto e Potente ordinò ai suoi soldati di scegliere in strada un migliaio di persone a caso e fucilarle.
Ma siccome il popolo di Là era stato infido e astuto comportandosi sempre amichevolmente coi soldati, il morale delle truppe era così basso che nessuno si sentiva di scegliere a caso mille persone che non gli avevano fatto nulla e sparargli. Così l'alto e Potente diede l'ordine alle truppe speciali di eliminazione. Ma gli ufficiali gli comunicarono che i soldati semplici erano già abbastanza infelici e che la fucilazione di un migliaio di persone sarebbe potuta sfociare in un ammutinamento.
E l'Alto e Potente riceveva lettere da chi in patria occupava alte cariche e che scriveva: "Più Alto di tutti i Potenti, hai dato prova del tuo valore di comandante in campo e hai mostrato il tuo genio militare, e noi ci congratuliamo per le tue innumerevoli vittorie magnificenti. Ma ora ti chiediamo di tornare indietro e lasciare quei pazzi del popolo di là ai loro stratagemmi. Ci costano troppo. Se dobbiamo piazzare un soldato con un fucile mitragliatore dietro ogni operaio per minacciarlo di morte, e un ingegnere che impartisca ordini, la conquista diventa un'impresa per cui non vale la pena muoversi. Ti preghiamo, torna in patria, perché il nostro amato paese è già stato privato troppo a lungo della tua luminosa presenza."
Così l'Alto e Potente richiamò l'esercito, ordinò di requisire qualsiasi macchina e qualsiasi oggetto di valore si potesse trasportare, e ritornò in patria imprecando.
"Ma gliel'abbiamo fatta vedere!" rimuginava. "Quei codardi. Che cosa faranno quegl'imbecilli? Come faranno a capire chi è ingegnere, chi è medico, e chi è falegname? Senza diplomi e lauree! Come faranno a decidere chi deve vivere in una villa e chi in un appartamento, se non possono dimostrare che cosa gli appartiene? Come riusciranno ad amministrare senza atti di proprietà, senza registrazioni della polizia e patenti di guida, senza titoli e uniformi? Vivranno nella confusione! E se le cose stavano così, allora non dovevano entrare in guerra contro di noi, quei codardi."
Eccomi. Sto danzando. Danziamo in una lunga fila, dipinti e adornati in onore del Dio. Presto saremo con Huitzilopochtili; presto scorteremo il sole nel cielo. Eravamo guerrieri, ora siamo prigionieri. Danziamo in una lunga fila, e lassù stanno i sommi sacerdoti. Danziamo in una lunga fila, e ognuno di noi, un dopo l'altro, muore, in sacrificio agli Dei. Presto conficcheranno il coltello fatto di pietra nera anche nel mio petto. Il mio sangue scorrerà sull'altare, e loro mi strapperanno il cuore. Il mio sangue è nutrimento per gli dei. Il mio sangue è nutrimento per Huitzilpochtli, il sole. Danzo. Mi hanno dato da bere del pulque. Ora mi sento leggero e danzo. All'inizio ero triste; non ero io ad aver fatto prigioniero un nemico. Ma ora sono leggero. Io salverò la Terra, il mio sacrificio placherà gli Dei che non distruggeranno la terra. Mi risveglierò da Huitzalpochtli; viaggerò con lui nel cielo. E allora diverrò un colibrì, come tutti i soldati valorosi caduti in battaglia, che si sacrificano in battaglia, e volerò di fiore in fiore e sarò felice fin quando esisterà la Terra. Così è sempre stato, così deve essere.
Danzo e sono sempre più vicino all'altare. Danzo, e mentre danzo, ricordo:
Sono nato il primo giorno del mese di Ocelotl, e quindi la sorte ha stabilito che morissi prigioniero di guerra. Quando venni in questo mondo, la levatrice mi disse: " Amato figlio, sappi che la tua casa non è la casa in cui sei nato, perché tu sei un guerriero, sei un uccello-Quecholli, e la casa in cui sei venuto al mondo è soltanto un nido. Tu sei destinato a rinnovare il sole con il sangue dei tuoi nemici e a nutrire la Terra con i loro corpi." Così si dà il benvenuto a tutti i maschi.
Se fossi nato femmina, avrebbe detto, "Tu devi restare in casa proprio come il cuore dimora nel corpo. Non devi abbandonare la casa, devi essere come la cenere nel focolare."
Si tennero molti discorsi alla mia nascita. Vennero parenti e amici, e si chiese al sacerdote astrologo di leggere il calendario benedetto, che prevede il destino di ciascuno. Stabilì il giorno del mio battesimo, e in quel giorno fui asperso con acqua più volte. E la levatrice pronunciò le parole: " Porta e ricevi perché tu vivrai nell'acqua su questa Terra, crescerai e diverrai verdeggiante dall'acqua; l'acqua ci dà il necessario per vivere." Quindi scelsero per me il nome Citlacoatl, Serpente Stella.
Per otto anni vissi nella casa paterna. Appena fui in grado camminare e parlare, dovetti portare acqua e legna e andare con mio padre al mercato. Più tardi, imparai a pescare e a navigare; mia sorella, invece, imparò a filare e a tessere e macinava il granturco nel mortaio. A otto anni, mio padre mi mandò al calmecac, la scuola del tempio, non la scuola normale dei guerrieri. "Ascolta figlio mio, " mi disse."Non raccoglierai né onore né rispetto. Sarai ignorato, disprezzato e avvilito. Ogni giorno taglierai spine d'agave per fare penitenza. Dovrai ferirti con le spine e offrire il tuo sangue in sacrificio, e la notte ti sveglieranno per fare bagni in acqua fredda. Tempra il tuo corpo col freddo, e quando il tempo del digiuno verrà, non interromperlo, e non permettere a nessuno di scorgere segni di indebolimento durante il digiuno e gli esercizi di penitenza."
Imparai ad essere uomo alla scuola del tempio. Si richiedevano sacrificio e negazione di sé. La notte, tra le montagne, dovevamo offrire incenso e il nostro sangue agli dei. Di giorno dovevamo lavorare con fatica nei campi del tempio. Anche la più piccola infrazione era punita duramente. Talvolta piangevo e pensavo come è difficile essere guerriero e uomo. Ma divenni più forte. E disprezzavo i ragazzi che frequentavano la scuola normale dei guerrieri. Loro tagliavano legna e pulivano le fosse per l'acqua e i canali e coltivavano i campi della comunità. Ma al tramonto andavano tutti al cuicacalco, la casa dei canti e danzavano e cantavano fino a mezzanotte e dormivano con ragazze di cui non erano sposi. Frequentavano solo i guerrieri di cui ammiravano le gesta e che volevano imitare. Non sapevano nulla delle cose più alte, di scienza, d'arte, o dell'adorazione degli Dei.
Noi studenti del calmecac eravamo destinati a compiti più alti. Potevamo diventare sacerdoti o funzionari pubblici. Alla scuola del tempio imparai l'autodisciplina e la tenacia, ma imparai anche a parlare e a rivolgermi alle persone con rispetto, secondo le usanze delle corti dei re. Imparai il giusto modo di trattare i funzionari pubblici e i giudici. Imparai anche l'astronomia e l'interpretazione dei sogni, il calcolo degli anni e il calendario astrologico. Imparai a tracciare i segni e i disegni per i numeri e per i nomi, e a decifrare gli scritti dei nostri antenati. E imparai gli inni sacri del nostro popolo, le canzoni con le quali onoriamo gli Dei e le canzoni che raccontano la Storia degli Aztechi. Perché noi siamo un popolo grande e potente e tutti i popoli della Terra ci temono.
Molto tempo fa ci spostammo da Aztlàn, la nostra terra d'origine, da cui gli Aztechi prendono il nome. Le leggende raccontano che Aztlàn era circondata dalle acque e che noi eravamo un popolo di pescatori. Alle origini eravamo poveri. Ci vestivamo di pelli di animali e non avevamo altro che frecce e archi e bersagli per le lance. Non eravamo superiori ai popoli delle foreste che vivono al nord del nostro impero. I nostri capi erano quattro sacerdoti, che trasportavano un reliquiario fatto di giunco. Nel reliquiari stava il nostro Dio, Huitzilopochtli, che parlava loro e diceva ciò che si doveva fare. Dopo essere partiti da Aztlàn, il nostro Dio ci ordinò di chiamarci "popolo della luna", Messicani.
Se avessimo trovato una buona sede, forse saremmo rimasti lì alcuni anni. Seminavamo il granturco, ma non ci fermavamo mai abbastanza da mieterlo. Eravamo soliti vivere cacciando cervi, conigli, uccelli, e serpenti e di tutto ciò che cresceva sulla terra.
Ma Dio ci promise: " Dobbiamo sistemarci e trovare una sede, e conquisteremo tutti i popoli del mondo; E infine vi dico che metterò i vostri re e i vostri capi sopra ogni cosa di questo mondo; e voi regnerete e avrete infiniti vassalli che vi pagheranno tributi di innumerevoli pietre preziose, e oro, le piume dell'uccello-Quetzal, smeraldi, coralli, ametiste. E voi li indosserete come gioielli. E avrete anche moli generi di piume e cacao e cotoni di mille colori. Voi toccherete con mano tutto questo!"
Alcuni affermano che in principio Huitzilopochtli non era il nostro Dio. La nostra tribù era composta di sette clan, e ogni clan teneva le proprie assemblee ed eleggeva i suoi capi. E così, si dice che ogni clan avesse il suo dio. Ma Huitzilopochtli era il più grande di tutti, il Dio del sole e della guerra. Fummo nomadi attraverso molte terre. Alcune desolate e deserte, altre popolate e dovevamo combattere con gli abitanti. In alcuni luoghi restammo più a lungo e costruimmo un tempio per il nostro Dio. Ma qualcosa ci spingeva a muoverci. Spesso, spostandoci, eravamo costretti a lasciare i nostri vecchi. Talvolta un gruppo della nostra tribù voleva separarsi e viaggiare verso altre mete. Ma altri si univano a noi: cacciatori che non avevano dimora fissa in un villaggio. Infine, giungemmo alla bella terra tra le montagne che oggi porta il nostro nome, il nome Messico. E' situata in alto tra i due mari, protetta e circondata da monti. Qui è l'eterna primavera. Solo di rado c'è una gelata, e quando d'estate fa troppo caldo, le notti sono fresche. Le sorgenti montane forniscono acqua alla terra, e sotto, nella vallata, ci sono cinque laghi freschi, circondati da villaggi e città.
Un tempo c'era un potente impero, qui, l'Impero di Tula, la città del Dio Quetzalcoatl. Ma Quetzalcoatl, Dio delle arti e del calendario, aveva abbandonato la sua città, e l'impero era caduto. I villaggi e le città sulle lagune erano piccoli e i popoli non avevano un unico capo. Ogni tribù viveva separata dalle altre, con i suoi costumi e i suoi dei.
Trovammo una patria in un luogo chiamato Collina delle Cavallette, Chapulpetec. Qui, eleggemmo per la prima volta un unico capo per tutte le tribù, perché avevamo dovuto combattere troppe guerre con il popolo confinante, e avevamo bisogno di un capo esperto nella guerra. Il popolo confinante non si dava pace, quando ci stabilimmo lì, e avevano bambini, e ci attaccarono. Ci difendemmo con valore, ma quando divennero troppo forti, ci cacciarono. Il nostro capo fu fatto prigioniero e sacrificato, e noi fummo costretti ad arrenderci.
I governanti di Culhuacàn ci diedero una terra che si trovava a due ore di distanza dalla loro città e che brulicava di serpenti. Si pensava che volessero confinarci a vivere lì, perché ci temevano e non ci volevano vicini. Ma noi catturammo i serpenti e li friggemmo, perché, dopo le nostre lunghe peregrinazioni, eravamo abituati alle privazioni. Ecco perché ci chiamarono mangiatori di serpenti. Ma ci rispettavano, perché eravamo riusciti a sopravvivere in un luogo dove nessuno sarebbe sopravvissuto. Così, presto cominciammo a commerciare con loro. Sposavano le nostre figlie, e noi le loro, e ci unimmo con vincoli di parentela. Quando entrarono in guerra coi loro confinanti, ci chiesero aiuto e noi fabbricammo armi e li salvammo. Ma quando si resero conto di che abili guerrieri fossimo, ebbero paura e non ci ringraziarono. E noi entrammo in guerra contro di loro.
Fummo costretti a fuggire e arrivammo ad Acatzitlàn. Lì, facemmo zattere dei nostri scudi e delle nostre lance e navigammo sulle acque verso un'isoletta sul lago.
E lì uno dei sacerdoti di Huitzilopochtli ebbe una visione, e il dio gli apparve e disse che avremmo dovuto cercare un cactus su cui stava posata un'aquila. Questo luogo si sarebbe chiamato "luogo del frutto di cactus", Tenochtitlàn, e l' avremmo dovuto fondare una città. Cercammo e trovammo l'aquila posata sul cactus che si cibava di un frutto rosso di cactus, proprio come il sole si ciba del cuore dei guerrieri. Lì sradicammo zolle d'erba dalla terra, e le accatastammo fino a formare una collina sulla quale erigemmo una cappella fatta di giunco, per Huitzilopochtli. "Qui, " disse Huitzilopochtli "qui diventeremo i signori di tutte le tribù, di tutte le loro proprietà, dei loro figli e delle loro figlie. Qui ci serviranno e ci pagheranno tributi. In questo luogo sarà fondata la famosa città destinata a divenire regina e signora di tutte le altre- dove un giorno riceveremo re e principi che dovranno venire qui per rendere omaggio alla città più potente."
Eravamo di nuovo in un luogo circondato da acque, come l'antica patria, Aztlàn.
Secondo i nostri più antichi costumi, tracciammo la città secondo il nostro numero sacro, il quattro. Era divisa in quattro quarti, e ogni quarto era suddiviso in quartieri che si chiamavano calpulli. Ogni calpulli apparteneva ad un clan e aveva il suo tempio dedicato al Dio del clan. La terra apparteneva all'intero clan, e le singole famiglie l'avevano soltanto in affitto.
C'erano uccelli e pesci in abbondanza, qui. Ma la terra a disposizione non era molta, e allora costruimmo i giardini sull'acqua. Intrecciavamo muri esterni di giunco e tra questi muri costruivamo strati di fango e piante acquatiche fino a quando non emergevano dall'acqua. Così potevamo piantare su di essi fagioli e granturco.
Dopo alcuni anni ci fu una discordia tra noi, e parte della nostra tribù si spostò e fondò Tlatelolco su un'isola vicina.
Vivevamo così, tra giunco e paglia sulla nostra isola e non avevamo legno né pietra. Erano trascorsi duecento anni dalla nostra partenza da Aztlàn.
Non cedevamo a nessuno, perché la nostra città si estendeva sui confini di tre regioni, le regioni dei Tepanec, quella degli Alcolhua, e quella del popolo di Culhuacàn, che si trovavano tutte intorno al lago. Andavamo ai loro mercati e commerciavamo con loro. Portavamo pesce, rane, e altri animali acquatici, e loro ci davano legna e pietra per le nostre case e per i nostri templi.
Quando il nostro capo e gran sacerdote Tenoch morì, chiedemmo ai governanti di Culhuacàn di darci un capo, perché i Messicani erano disprezzati e tenuti in poco conto, e pensavamo che avere come capo il figlio di un gran principe avrebbe accresciuto il nostro prestigio. Gli chiedemmo di darci Acamapichtli come capo, il figlio di un Messicano e di una principessa Acolhua. Tlatelolco, dal canto suo, scelse come capo un figlio del capo dei Tepanec. In questo modo, si stabiliva una parentela con tutte le tribù intorno al lago. Acamapichtli governò in pace. Costruì per noi case, giardini acquatici, e canali.
Tra le tribù intorno al lago, i Tepanec erano la più potente. Avevano mosso guerra contro altre città, e le avevano conquistate. Quando divennero ancora più potenti, anche noi dovevamo pagare tributi a loro e marciare in guerra con loro quando lo ordinavano.
Quando il nostro capo Acamapichtli morì, i nostri maggiorenti scelsero suo figlio, Huitzilihuitl, Piume di Colibrì, come suo successore ed egli sposò una nipote del capo Tepanec. Così la nostra condizione migliorò e i Tepanec dovevano rispettarci. Huitzilihuitl dichiarò guerra alle terre del sud che abbondavano di cotone. In questo modo i Messicani ebbero i primi abiti di cotone; prima d'ora conoscevano soltanto tessuti grezzi ottenuti dalla fibra di agave. Poi conquistò Cuauhtinchan, Calco, otumba, Tulacing, e ancora molte altre città. Incominciò la guerra con Texcoco.
Suo figlio era Chimalpopoca che era stato scelto come suo successore al comando. Portò a termine la guerra con Texcoco e conquistò la città. I governanti dei Tepanec consegnarono la città ai Messicani, e dovettero pagare loro tributi. Ma noi dovevamo ancora pagare tributi ai Tepanec.
Ma quando il capo dei Tepanec morì, decidemmo di non essere più assoggettati a loro. La nostra città era cresciuta, non vivevamo più in capanne, ma costruivamo le nostre case di pietra. Non volevamo più servire i Tapanec. A dire il vero, la gente comune, i contadini avevano paura della guerra perché avevano provato la forza dei Tapanec. Così i maggiorenti- i parenti del capo, i sacerdoti e tutti i capi dei guerrieri- dicevano: " Se non vinceremo questa guerra, ci metteremo nelle vostre mani. Potrete rivendicarvi su di noi e lasciarci marcire in prigione." Al che il popolo rispose: " E noi promettiamo di servirvi e lavorare per voi, di costruire le vostre case, e di riconoscervi come nostri veri padroni, se doveste vincere questa guerra."
Così ci alleammo con i Texcoco, contro i quali avevamo prima combattuto, e ora combattevamo contro i Tapanec. L'assedio alla loro città durò centoquattordici giorni. Poi li conquistammo. Il loro capo, Maxtla fu sacrificato e il suo cuore strappato. Poi fu seppellito con gli onori dovuti ad un capo.
Ora i messicani avevano conquistato molta terra. E questa terra era ora distribuita, e, secondo l'accordo tra i maggiorenti e il popolo, i capi e i maggiorenti ebbero la parte maggiore. Tuttavia i clan ricevettero solo poca terra, sufficiente soltanto a mantenere i loro templi. Però alcuni dicevano che non c'era mai stato un accordo tra il popolo e i maggiorenti, e che i maggiorenti lo avevano semplicemente inventato. Il popolo diceva che era ingiusto, e che tutta la terra era sempre appartenuta all'intera tribù, e che tutti avevano gli stessi diritti. Ma come potevano difendersi? I guerrieri avevano vinto la guerra ed ingrandito l'impero. E chi era ritenuto potente in questa terra? I contadini che estraevano una piccola spiga dal terreno? O i guerrieri, che ingrandivano l'impero e facevano pagare tributi alle altre tribù? E chi garantiva che ci fossero sempre prigionieri da sacrificare alle cerimonie perché gli Dei, adirati con noi, non distruggessero la Terra?
Al tempo in cui erravamo nomadi ed eravamo poveri e disprezzati avevamo tutti gli stessi diritti, questa è la verità. Tutti eravamo guerrieri e contadini al tempo stesso. Ma come si può pensare che combattiamo guerre e conquistiamo città se ognuno dice la sua e pretende di essere un consigliere? E volete che i sacerdoti, i giudici, e i pubblici ufficiali dissodino anche la terra? Come potrebbero adempiere i loro compiti?
No, l'accordo è questo: ogni giovane presta il suo servizio in guerra. Quando ha dieci anni, gli rasiamo i capelli, e lasciamo soltanto una zazzera sul retro del collo. Chiunque catturi un prigioniero per la prima volta, anche se con l'aiuto dei suoi camerati, può tagliarsi la zazzera. E' un iyac. Ma nessun guerriero diventerà un tequia prima di aver catturato da solo quattro prigionieri. E un tequia, non ha forse a disposizione tutte le cariche e gli onori? Un tequia riceve una parte delle tasse che il governatore riscuote. Può indossare piume e braccialetti di cuoio. Può diventare un Cavaliere Giaguaro o un Cavaliere Aquila. L'imperatore può scegliere un tequia per le cariche più alte. Ma chi non riesce a diventare un tequia in due o tre campagne, deve andare nei campi. Deve pagare le tasse ed è obbligato a lavorare ai lavori pubblici. Deve pulire le strade o riparare i danni, e deve lavorare nei campi dei massimi ufficiali pubblici. Non può indossare abiti di cotone e gioielli. Non è così? Ma a chiunque si distingua come guerriero o come pubblico ufficiale si fa dono di regali o abiti, di gioielli e di terra. Gli altri devono lavorare per lui e riempire i suoi magazzini di granturco.
Siamo diventati un popolo grande e ricco. Al mercato ci sono granturco, verdure e pollami. Le donne cucinano su piccoli focolari molti generi di cibo che possiamo comprare. I commercianti offrono capi d'abbigliamento, scarpe, bevande, pellicce, ceramiche, corde, canne e ogni genere di strumenti. I pescatori catturano pesci, lumache, e gamberetti nel lago della città. Dalle regioni più lontane i nostri mercanti portano giade e smeraldi, gusci di tartaruga, e pelli di giaguaro, ambra, e piume di pappagallo. Le città che abbiamo conquistato ci pagano un tributo di 52.000 tonnellate di cibo l'anno. I convogli dei corrieri non hanno fine. Chi ci paga tributi deve consegnare 123.000 abiti di cotone e 33.000 pacchi di piume. La provincia di Yoaltepec ci manda 40 braccialetti d'oro dello spessore di un dito ogni anno: Tlachquiauco deve consegnarci venti zucche di polvere d'oro. Da Xilotepec giungono 16.000 abiti femminili l'anno, due completi da guerriero con scudi ed elmi e quattro aquile vive. Da Tochpan riceviamo il pepe; da Tochtepec gomma e cotone. Le province ci inviano granturco, cereali, cacao, miele, pepe, tabacco mobilia, e ceramica. Devono portare oro dalla costa meridionale, turchese e giada dalla costa orientale. Huaxtepec fornisce carta, Cihuautlàn mitili.
Non abbiamo forse unito innumerevoli città in un grande impero? I nostri maestri intagliatori che traggono gioielli dalle pietre preziose non vengono forse da Amantlàn? Non li abbiamo conquistati e bruciato le loro case? E gli orafi arrivano dalle lontane zone del Sud.
Il nostro imperatore Moctezuma vanta 3.000 servitori - per non parlare di tutte le sue aquile, i suoi serpenti, e dei suoi giaguari che mangiano 500 tacchini al giorno. Nel mese di Uey tecuihuitl, quando i poveri hanno dato fondo a tutte le loro scorte, l'imperatore apre i suoi magazzini e distribuisce cibo e bevante tra il popolo. 700.000 persone vivono nella città di Mexzico-Tenochtitlàn. Abbiamo fortificato l'isola ed abbiamo costruito dighe nell'acqua, ponti sui canali, templi e palazzi, un acquedotto che fornisce acqua da Chapultepec alla capitale. Quando l'imperatore costruisce un tempio, le città mandano pietre e limo. Migliaia di operai devono essere nutriti dall'imperatore durante la costruzione di un tempio dedicato agli Dei. Il nostro imperatore ha costruito giardini e bagni, e qui si raccolgono animali e piante provenienti dall'intero impero. Quando l'imperatore celebra una cerimonia, invita i governanti delle città nemiche è prodigo nel donare loro gioielli e abiti sontuosi. Chi è così ricco, così potente come noi Messicani? Quando il nostro imperatore Ahuitzotl sedò la rivolta degli Huaxtek, le celebrazioni durarono settimane. Il solo sacrificio dei prigionieri durò quattro giorni! Nessun popolo è più grande, nessun popolo è più forte del nostro!
Ma:
Come si
dice, noi non viviamo qui,
né siamo venuti qui per perdurare.
Oh, devo lasciare i bellissimi fiori,
Devo scendere laggiù a cercare la vita ultraterrena.
Oh, per un attimo il mio cuore si è sentito stanco:
le belle canzoni
ci sono soltanto concesse in prestito.
Gli Dei hanno bisogno di sacrifici. Dobbiamo nutrire gli Dei con sacrifici, perché non distruggano il mondo. Io Danzo. I tamburi battono, i flauti si lamentano, Io danzo. Sempre più veloce, danzo, sempre più confuso. Presto sarò con Huitzilopochtli. No, Io stesso sono Huitzilopochtli. Non indosso forse i suoi abiti, non sono vestito come lui? Davanti a me, il sacerdote con il coltello di pietra nera. E' il mio turno.
Ogni volta che molte persone si trovano insieme, succedono sempre cose che nessuno sarebbe in grado di prevedere. Già, anche cose che nessuno vorrebbe accadessero. Vi sembra incredibile?
Pensate, per esempio, agli ingorghi sulle nostre autostrade. Forse qualcuno desidera gli ingorghi? C'è qualcuno che vuole starsene senza far niente a sudare su un'autostrada polverosa? No, certo che no. Tutti vogliono semplicemente andare in qualche posto, il più velocemente possibile. Ed è proprio per questo che si trovano incollati in un ingorgo- realmente, meccanicamente, centinaia di volte.
Alcuni amici del Signor Balaban sedevano un giorno tutti insieme, quando uno di loro disse, "Siamo tutti dei perdenti meschini. Dovremmo dar vita ad un'associazione per aiutarci l'un l'altro."
"Lasciami in pace, tu con le tue associazioni, " disse un altro, "Se ognuno badasse a se stesso, non ci sarebbe bisogno di badare a nessuno."
Per un istante gli amici discussero se questo fosse vero, poi chiesero l'opinione del Signor Balaban.
"Qualche volta è vero, credo. Se due uomini con la stessa forza vanno in un boschetto di noccioli a raccogliere nocciole, probabilmente è meglio che ciascuno raccolga nocciole per sé. Se ognuno di loro raccogliesse nocciole per l'altro, potrebbero pensare, "Perché mai dovrei lavorare così sodo. Se elimino me stesso, avrò solo le nocciole che raccoglie il mio partner." E forse ciascuno di loro s'impegnerebbe meno che se raccogliesse per se stesso, ed entrambi avrebbero meno nocciole. Ma spesso i destini delle persone sono così strettamente legati, che ci si interessa soltanto del proprio interesse, e si rendono le cose più difficili per tutti."
"Com'è possibile?" chiesero i suoi amici.
E il Signor Balaban, propose questo rompicapo:
"Un tempo a Samarcanda, le autorità catturarono due ladri per il furto di un'oca. Timur Lenk li rinchiuse in due celle differenti, in modo che non potessero essere in contatto tra loro. Poi andò dal primo e disse, "Ascolta, tu hai rubato un'oca, e per questo riceverai venti bastonate. Non è piacevole, ma sopravvivrai. Ma so per certo che non hai rubato soltanto l'oca, ma ha i preso anche due calici d'oro nel mio palazzo. Potrei condannarti a morte, ma questo mi comporterebbe un inconveniente: non riavrei mai i miei due calici d'oro. Potrei farti confessare sotto tortura, ma ho pensato a qualcosa d'altro. Fa bene attenzione: se confessi il furto dei calici e mi dici dove li hai nascosti, farò giustiziare soltanto il tuo complice e ti lascerò andare. Sappi che darò anche a lui la stessa opportunità. Se lui confesserà e tu no, lo lascerò andare e tu sarai giustiziato. Naturalmente è possibile che confessiate entrambi. In tal caso non libererò nessuno dei due, è ovvio. Ma mi dimostrerò pietoso e vi farò soltanto tagliare la mano destra."
"E se nessuno di noi confessasse?" chiese il prigioniero che, supponiamo avesse realmente rubato i calici con il suo compagno.
"Beh," disse Timur "in tal caso prendereste soltanto le venti bastonate per il furto dell'oca."
"Secondo voi," chiese il Signor Balaban, "che cosa avrebbe dovuto fare il prigioniero?"
"Hai detto che non potevano comunicare tra loro?"
"Esatto" disse il Signor Balaban, "Timur si era assicurato che non potessero comunicare tra loro in alcun modo."
"Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa e confidare che neanche il suo complice non dicesse nulla, " diceva uno di loro.
"Come avrebbe potuto fare assegnamento su questo?" diceva un altro. "Sapeva che il suo complice avrebbe confessato di sicuro."
"Perché mai?"
"Perché per il complice era molto meglio confessare. Ascolta. Chiamiamoli Ahmed e Bulent. Ora, Se Ahmed confessasse, per Bulent sarebbe meglio confessare, perché altrimenti sarebbe giustiziato. Se Ahmed non confessasse, per Bulent sarebbe lo stesso meglio confessare, perché otterrebbe la libertà. Così Ahmed sa che Bulent confesserà. E anche Ahmed confesserà, o sarà giustiziato. Ma se per una qualche ragione Bulent decidesse di non confessare, meglio per Ahmed che otterrebbe la libertà."
"Sì, ma il risultato è che entrambi si troverebbero con le mani tagliate, mentre potrebbero cavarsela con venti bastonate."
E andarono avanti a discutere del rompicapo per ore, senza riuscire a trovare una soluzione.
"Questo è proprio quello che volevo dimostrare, " disse il signor Balaban. "Curandosi soltanto dei propri interessi, resero tutto più complicato per entrambi."
"Ma allora che cosa avrebbero dovuto fare, secondo te?"
"Avrebbero dovuto parlarsi e scambiarsi una promessa di silenzio."
"Ma sai bene che non potevano parlarsi!"
"Avrebbero potuto corrompere una guardia che facesse da tramite per le loro lettere o per i loro messaggi. Avrebbero potuto legare un biglietto alla coda di un topo, per quanto ne so, o far volare un pappagallo ammaestrato da una cella all'altra. Avrebbero dovuto tentare l'impossibile per riuscire a comunicare, perché se gli umani non si danno da fare per comunicare, non saranno mai in grado di perseguire i propri interessi senza rendere la vita più difficile agli altri - compresi se stessi.
Un tempo visse un buon Re che governò il suo regno con saggezza. Utilizzò le tasse dei suoi sudditi per costruire scuole e università così i giovani avrebbero potuto imparare tutti i diversi tipi di commercio e studiare tutte le scienze, in modo che tutti potessero rendersi più utili l'uno all'altro.Fece costruire ospedali e fece formare medici, per evitare che i suoi sudditti soffrissero più del necessario a causa delle malattie. Inoltre, vennero costruite strade e ferrovie, per far modo che i prodotti potessero essere trasferiti da una zona del regno in un'altra in cui ce ne fosse necessità. Inoltre, ammonì i giudici del regno affinchè dessero solo sentenze giuste e non permise ai suoi ufficiali di accettare tangenti.
Il re volle anche che tutti i suoi sudditi vivessero in pace. Instruì appositamente istruzione ai maestri di insegnare ai bambini ad essere tolleranti, e di non disprezzare mai un'altra persona per il colore della pelle, per il proprio culto religioso o per la cultura di appartenenza. I maestri avrebbero anche dovuto insegnare ai bambini a non picchiarsi quando litigavano, ma a discutere dei problemi e a risolverli amichevolmente. Ogni anno nella capitale si teneva una grande festa per la pace con musica e balli popolari, con giovani che venivano invitati da ogni parte del mondo.
Il Re era un bel giovane, tranquillo, umile e gentile. Non avrebbe veramente mai fatto male ad una mosca. Non si vestiva con abiti stravaganti, non mangiava cibo raffinato e non beveva vini costosi; non sperperava i soldi delle tasse per palazzi fastosi, nobili destrieri o auto sfarzose. Egli amava la sua giovane moglie e la sera siedeva accanto ai suoi bambini e gli leggeva le favole. Ma quello che gli piaceva fare di più era stare nel suo studio, con i suoi libri e i suoi resoconti da ogni parte del regno, a studiare dei modi per rendere la vita dei suoi sudditi meglio di quanto non lo era già.
Il Re non era una persona affatto presuntuosa, anzi era una mente lucida, e quando guardò ai rapporti da tutto il regno capì che stava governando il suo regno veramente bene e che era il miglior re che i suoi sudditi si potessero mai augurare di avere. Da questo dedusse che nessuno avrebbe potuto desiderare qualcun'altro al suo posto, tranne qualcuno con delle cattive intenzioni, e quel qualcuno avrebbe usato i poteri del re solamente per ragioni egoistiche.
Il Re disse al suo capo di polizia: "Se qualcuno vuole prendere il mio mio posto, questo potrà solo essere per abusare dei poteri del re, forse per comprare nobili destrieri o palazzi sfarzosi, o per spendere i soldi delle tasse su vestiti stravaganti e gioielli, o auto sfarzose. Quindi, stai attento a questa gente e impediscigli di fare del danno al mio regno!"
Il capo della polizia era in effetti un vecchio amico del re, erano andati infatti nella stessa scuola e nella stessa università. Era un bravo giovane con tante buone qualità. Non odiava nessuno, non disprezzava le persone dagli abiti, per la lingua o per la religione. Ma la sua qualità più grande era la sua totale fedeltà al re. Disse ai suoi poliziotti: " Abbiamo un re molto intelligente e ben intenzionato che ci governa con saggezza. Si occupa delle nostre scuole e università, degli ospedali, delle strade e delle autostrade, dei nostri tribunali e del nostro servizio postale. Queste sono cose importanti, ma la più importante per il benessere del nostro regno e dei suoi sudditi è che il nostro Re rimanga Re. Quindi fate attenzione a chiunque voglia un altro Re o a chi addirittura miri a prendere il suo posto. Queste persone sono nemici della nostra gente e ce ne dobbiamo immediatamente sbarazzare.
Anche i poliziotti erano brave persone e avevano tante buone qualità; amavano le loro famiglie e non odiavano nessuno. Ma la loro qualità più grande era la totale obbiedienza ai propri superiori, quindi andarono a cercare le persone che potevano rappresentare dei nemici per il re, quindi anche di tutto il popolo.
Quando sentirono dire in giro di qualcuno che aveva detto :"Beh,hanno fatto veramente un buon ospedale, ma dovrebbe avere un reparto maternità più grande" i poliziotti sospettarono di una critica verso il re e procedettero immediatamente all'arresto.
Dopo qualche tempo delle persone iniziarono a lamentarsi della situazione più seriamente,dicendo che la polizia non dovrebbe arrestare qualcuno solo per un opinione diversa sugli ospedali o sulle scuole. Va da sè che queste persone ricevevano un trattamento ancora più aspro.Venivano buttati nei sotteranei più profondi e i loro processi non si tenevano in pubblico.
La gente comune non doveva venire a sapere che c'erano così tante persone che criticavano l'operato della polizia . E se qualcuno tentava a opporre resistenza all'arresto i poliziotti non avrebbero potuto fare a meno di usare la forza, anche se non era una cosa che a loro piaceva.
Gli amici e i parenti dei scomparsi continuamente a fare domande, quindi il re decise di fare una legge che impediva di criticare l'operato della polizia, così anche ai giornali fu impedito di scrivere sugli arresti o sulle persone scomparse. La gente aveva diverse opinioni sulla faccenda. Alcuni pensavano che la polizia facesse bene a vigilare sulla sicurezza del re perchè dopo tutto era un buon Re e governava bene il regno. Ma altri pensavano che non era giusto arrestare la gente e poi buttarla nelle segrete più profonde senza nemmeno un processo pubblico.Quest'ultimi si lamentavano anche del fatto che di recente il re spendesse di più per la polizia che per scuole e gli ospedali, e per le strade. E c'erano anche quelli che stavano seriamente pensando che il re doveva essere sostituito. Alcuni di questi vennero arrestati, e il capo della polizia li ritenne troppo pericolosi perfino per lasciarli vivi nelle segrete sotterranee. La sua fedeltà al re imponeva che questi capibanda fossero uccisi, anche se non era decisamente propenso a spargere del sangue. Non fu lui a farlo ma incaricò i suoi uomini più fidati. Questi, che non avevano mai obbiettato un ordine, non contestarono la sua decisione. Fecero solamente il loro dovere.
A questo punto la gente iniziò a temere per la propria vita e molte persone che criticavano l'amministrazione del regno fuggirono nei regni confinanti.
Potete immaginarvi cosa sia successo dopo. Il capo della polizia temeva che la gente che si opponeva al re si radunasse nei regni confinanti e formasse un esercito, tornasse a conquistare il regno e detronizzasse il re. Una parte ancora grande delle tasse dei sudditi venne spesa per rafforzare l'esercito, comprare altre armi e per assumere delle spie da mandare nei regni confinanti.
E ovviamente gli altri regni si spaventarono di queste mosse del Re, e iniziarono a preparare le loro difese.
Così, un giorno, il buon Re non ebbe altra scelta che dichiarare loro guerra, e il fedele capo della polizia non potè far altro che guidare il suo esercito alla battaglia, e tutti quei giovani, a cui era stato insegnato ad essere tolleranti e ad avere rispetto degli altri, neanche loro ebbero altra scelta che armarsi di fucili e marciare verso il confine,per sparare ai loro coetanei che erano dall'altro lato del confine, prima che l'avessero fatto loro.
Ora vorrei dire qualcosa di molto chiaro su una certa questione. Specialmente ora che in tanti menano il can per l'aia e nessuno dice ciò che pensa perché "non è educato", perché non si fa, perché riporta alla luce dei ricordi che è meglio lasciar sepolti. Proprio per questo è necessario che qualcuno dica apertamente come stanno le cose.
Ovviamente anche gli stranieri, persino quelli del Sud e dell'Est, sono persone. Nessuno lo discute. Certo, anche loro hanno occhi, bocca e naso, proprio come noi. Provano amore e paura come noi, hanno talento o sono stupidi, come noi, e via di questo passo. Certo, fra loro, come fra noi, ci sono persone oneste e meno oneste. Quando crescono in circostanze normali, non sono più inclini al crimine di quanto lo siamo noi. Tuttavia non è questo il punto. Il punto è che noi dobbiamo difendere la nostra cultura e dobbiamo difendere la nostra prosperità, senza la quale la nostra cultura non esisterebbe. Il fatto è che qui viviamo in una delle nazioni più ricche del mondo (e questo vale per tutti coloro che possono leggere queste parole, per i tedeschi come per gli svizzeri e gli austriaci). Qui abbiamo un benessere e una struttura sociale sicura che i greci o i polacchi si possono solo sognare. Gli etiopi e i colombiani, poi, non se la possono neppure immaginare. Affrontiamo i fatti in maniera scientifica: dei sei miliardi di persone che vivono nel mondo, soltanto un miliardo vive in un Paese industrializzato. Guarda caso, noi siamo fra questi ultimi. Noi, la ricca sesta parte dell'umanità, possediamo i quattro quinti della ricchezza della Terra! Consumiamo il 70% dell'energia, il 60% del cibo e l'85% del legname del pianeta. Che accadrebbe se tutti gli altri si facessero avanti e pretendessero la loro parte? Finora solo un milione, un milione e mezzo, di poveri diavoli si sono rifugiati da noi per scampare alle persecuzioni politiche, alle guerre o alla fame. Bene, là fuori non ci sono milioni, ma miliardi di poveri diavoli che invidiano la nostra prosperità! Noi, che siamo la sesta parte più ricca, possediamo sessanta volte di più della sesta parte più povera. Questo fatto va accettato senza falsi sensi di colpa. Un tedesco consuma tanto carburante quanto ne consumano dieci neri africani. Un tedesco immette nell'aria tanta anidride carbonica (CO2) quanta ne producono 65 neri. Nella nostra parte di mondo c'è un'automobile ogni due abitanti, inclusi i bambini. In India ce n'è una ogni 455 persone. Siamo chiari, se tutti loro volessero adottare il nostro stile di vita, potremmo chiudere il pianeta! Semplicemente, non c'è abbastanza petrolio nel mondo per fare guidare un'auto anche ai neri o ai cinesi. Questi sono fatti!
Chiunque parli di giustizia mentre si beve una tazza di caffè dovrebbe soltanto pensare qual è il prezzo di quel caffè. Dieci anni fa i neri o gli indios del Sudamerica hanno ricevuto da noi l'equivalente di una locomotiva per 13.000 sacchi di caffè. Oggi se vogliono comprare una locomotiva ce ne devono consegnare 45.000. Non si può dire che questo sia un male per noi: nessuno vuol fare a meno del caffè a buon mercato. Quanti fra quelli che amano parlare di giustizia comprano spontaneamente il caffè più costoso nei negozi del commercio equo e solidale? Chi chiede, quando acquista un'economica camicia indiana o una bella sciarpa di seta, se certi articoli sono convenienti perché sono stati prodotti grazie al lavoro dei bambini? No, la solidarietà comincia a casa propria. Tutti noi pensiamo innanzitutto al nostro personale futuro e al futuro della nostra famiglia. Questa è una cosa naturale. Gli indiani o i cinesi farebbero lo stesso se fossero loro le nazioni guida nel mondo.
Non prendiamoci in giro: l'intero ordine mondiale si basa sulla supremazia dei bianchi. Dove sono i Paesi industrializzati? In Nordamerica, in Europa, in Australia, in Sudafrica e in Giappone. Non possiamo neppure includere più la Russia. Praticamente si tratta soltanto di bianchi, a parte i giapponesi.
Le nazioni industrializzate, al giorno d'oggi, danno assolutamente per scontato il dover proteggere la propria supremazia nel mondo, soprattutto attraverso la politica e l'economia. Non solo proteggiamo i nostri confini dai profughi che arrivano dai Paesi poveri, ma difendiamo anche i nostri mercati dai loro prodotti. Ad esempio, alla dogana tassiamo molto di più il cotone grezzo dei tessuti già confezionati. Importiamo il cacao, non la cioccolata. Dopotutto dobbiamo proteggere dalla concorrenza le nostre aziende di tessuti e cioccolata. In verità non abbiamo il minimo interesse a far sì che quei Paesi aprano le loro fabbriche e si "sviluppino". In fondo vogliamo continuare a vendergli i nostri prodotti industriali ad alto costo e a comprare le materie prime a basso costo.
Per garantirci la supremazia saranno sempre sufficienti i mezzi politici ed economici, come l'unità europea? Non si dovrà, forse, un giorno arrivare a prendere delle misure di tipo militare? Quando l'Impero Rosso crollò qualcuno agì per un po' come se stesse per scoppiare una pace eterna. Ma i più avveduti compresero subito che i problemi non venivano tanto dall'Est quanto dal Sud.
Dai tempi della Guerra del Golfo una cosa è molto chiara: quando Saddam Hussein cercò di mettere le mani sul Kuwait, fu bacchettato sulle mani da noi, la parte ricca, con veemenza. Per fortuna allora avevamo a che fare con un vero dittatore ed un'autentica violazione delle leggi internazionali, cosicché nessuno poté sostenere che eravamo andati oltre i nostri diritti. Ma non fu soltanto Saddam ad assaggiare la supremazia tecnologica e militare. La guerra in televisione ha mostrato a tutto il Sud chi comanda nel mondo. Il signor Milosevic, che fortunatamente e indiscutibilmente è un dittatore e un criminale di guerra, ci ha fatto un favore analogo, al punto che nessuno osa puntare il dito contro di noi per accusarci di essere corresponsabili della guerra a causa degli ultimatum e di altri atti diplomatici e omissioni inaccettabili. In ultima analisi, queste guerre erano per noi indispensabili.
Non prendiamoco in giro! Non inganniamoci su come gli altri ci vedono: chiunque fra noi può comprare un garofano della Colombia in pieno inverno per poco più di mille lire. Già, e nessuno si chiede niente in proposito? Ogni giorno degli aerei volano per mezzo mondo soltanto per portare fiori freschi dall'altra parte del globo! Neppure gli imperatori dell'antica Roma potevano permettersi simili lussi. Non siamo forse l'aristocrazia del mondo? Saremmo ingenui a raccontarci che gli altri cinque sesti del pianeta ci amano. Naturalmente non tutti beneficiamo allo stesso modo della nostra supremazia. Solo in pochi fanno sempre il vero affare, non ci si può far nulla. Siamo semplicemente una meritocrazia. E' come una gara di sci: se uno è più lento di due centesimi di secondo rispetto a un altro, non si può dire che sia uno sciatore meno bravo. Eppure soltanto in tre vincono una medaglia, gli altri non prendono niente: queste sono le regole. Certamente non siamo soltanto una meritocrazia, ma anche uno stato sociale. I più poveri fra coloro che usufruiscono della nostra assistenza sociale vivono meglio della maggior parte delle persone in Mozambico. E non è tutto. Alcuni sanno già che non vinceranno mai una medaglia e sono coscienti del fatto che non saranno mai famosi né avranno successo. Perciò sono davvero frustrati. Non ci si può far nulla. Certo, sarebbe bello se potessimo mettere al primo posto altri valori: l'amicizia, l'affinità, il senso dell'umorismo o la capacità di essere felici e vivere con gioia. In tal caso, però, non saremmo così ricchi come siamo oggi. Bisogna capire che noi dobbiamo la nostra prosperità proprio al nostro sistema di valori, nel quale il successo è in cima alla lista.
Quelli a cui resta la parte più piccola, che si considerano inutili e non necessari, si sentono umiliati e sono pieni di rabbia. Non sono forse anche loro bianchi, europei, tedeschi, membri di una nazione industrializzata? Non appartengono forse al gruppo che dichiara di essere il sale della terra? Perché non dovrebbero farne parte? Naturalmente queste persone, perlopiù giovani, non possono capire perché, da una parte, basiamo molto poco le nostre attività economiche nel mondo su principi umanitari, mentre, dall'altra parte, garantiamo degli aiuti solo a un piccolo gruppo di persone, fondamentalmente insignificante. Il loro ragionamento (certamente semplificato) è questo: se noi ci presentiamo come i signori delle altre popolazioni sul piano nazionale ed economico, perché non possiamo fare lo stesso per quanto riguarda gli individui che appartengono a gruppi stranieri, specialmente nei nostri Paesi?
Costoro trascurano che, per la nostra reputazione nel mondo, è necessario un certo grado di umanità, che d'altro canto di certo contribuisce anche al nostro successo economico. Essi trascurano anche il fatto che il costo di questa umanità (anche se ovviamente ci piace ricordarlo alla gente) non è poi tanto elevato. Le sole banche tedesche guadagnano, grazie agli interessi pagati dai Paesi in via di sviluppo sui prestiti ricevuti, quattro o cinque volte il denaro speso dal governo federale per i rifugiati e per chi chiede asilo politico. Tuttavia, qui ci sono soltanto tre rifugiati ogni mille residenti, mentre un Paese come il Malawi ha a che fare con 105 rifugiati ogni mille residenti. Fortunatamente l'85% dei rifugiati del pianeta resta nel Terzo mondo.
Nonostante tutto si dovrebbe mostrare una certa comprensione per questi giovani forse troppo zelanti e radicali, piuttosto che demonizzarli come estremisti di destra e neonazisti con annessi e connessi. Naturalmente non è gentile appiccare il fuoco alle case dei profughi oppure organizzare spedizioni punitive contro gente di colore. Questi sono metodi primitivi e brutali. Soprattutto, certi atti estremi danneggiano le nostre relazioni internazionali e, quindi, direttamente anche i nostri interessi nelle esportazioni. Tuttavia, dietro questi stupidi eccessi che sono, lo ripeto, assolutamente da condannare, c'è anche un sentimento, un pensiero del tutto realistico: è necessario erigere una barriera difensiva contro questa aggressione dal Sud.
Certo, gli eccessi vanno vietati. Si deve mantenere l'ordine. D'altra parte dobbiamo riconoscere che la premessa basilare di questi eccessi è corretta ed è la logica conseguenza della nostra posizione di potenza politica ed economica nel mondo. Forse, anzi, probabilmente, un giorno avremo bisogno di spingerci ben oltre: chi può dire che in futuro non dovremo difendere i nostri successi, la nostra posizione nel mondo anche con l'uso della forza militare? Quando un giorno saremo in piena emergenza, quando sarà necessario difendere fino allo stremo la nostra cultura, i nostri valori e, non ultime, la nostra prosperità e la nostra preminenza nel mondo, potremo riuscirci soltanto se un salutare e forte spirito "prima la Germania", "prima l'Austria" o "prima l'Europa" sarà profondamente radicato come un valore fondamentale nelle menti e nei cuori della gente. Riguardo a ciò dobbiamo avere una chiara comprensione, non possiamo permetterci di lasciarci ingannare.
Un europeo
Alcune persone sedute al bar chiacchieravano sul da farsi in caso di guerra nucleare. Il Signor Balaban disse, "Se dovessero sganciare una bomba atomica, bisognerebbe farsi un bagno, avvolgersi in un drappo bianco e avviarsi lentamente verso il cimitero."
"Perché mai lentamente?"
"Per non scatenare il panico," disse il Signor Balaban.
Ever since I started writing books for children, I have considered it important to deal with the difficult subject of war and peace in a way that children can understand. It seems to me that it is not enough to tell children that war is terrible and that peace is much nicer. Although even that is a step forward, of course, considering there was once a youth literature that glorified the military and combat action. But most children in our latitudes know that war is something terrible and peace is much nicer. But is peace possible? Or is war an unavoidable destiny that keeps befalling humankind? Doesn’t our history class, as well as the evening news, teach us that war has always existed everywhere in the world and is still with us? A culture of peace, understanding of others, peaceful resolution of conflicts – all of that is well and good: but what if the others do not want to go along?
I cannot imagine how we can banish war from the life of humankind, if we do not search for the causes of war. Only when the cause of a disease is discovered, can a focused and effective method be found to fight it.
It is true that I just skipped all my history classes at university, but at home I have continued my studies of history for myself to this day because, as a writer, the question of what determines people’s actions and thoughts is naturally always on my mind. But of course I cannot claim to have found the philosopher’s stone or that in my stories I could absolutely explain the causes of war. And I also cannot present a complete recipe for the avoidance of future wars. But I want the stories to do more than just give people "food for thought." Writers are always trying to give people something to think about, but at some point, someone is going to have to start thinking. The stories I have collected here are intended to suggest a direction in which a person can continue to think; they are intended to convey a feeling for where and how to search for the causes of war.
Maybe the intentions of the book can best be summed up like this: I try to show how our actions can be interconnected in such a way, that the ones who do not try their best to further their own interests must perish. But that on the other hand by each of us trying to further our own interests we may in fact unintentionally increase the loss or make worse the damage for all of us. And that we cannot escape this dilemma unless we communicate with each other and coordinate our actions. This moral is simple enough, but the hard thing is to really see through the complex ways in which the actions of individuals, groups, nations, states on this planet are interconnected.
I am trying to teach children to begin to recognize that sort of social mechanism, and I think that this is a novel approach in children's literature.
Ho scritto Giustizia per un congresso di libri per l'infanzia che si è tenuto in Israele nel 2001.
La giustizia è un concetto molto ambiguo di cui il senso è spesso oggetto di un uso improprio.Cosa significa distribuire la ricchezza secondo giustizia?Dando a ognuno quello che si merita?O dando abbastanza per vivere una vita decente?Come si decide cosa si merita una persona? E chi lo decide?
E se qualcuno commette un crimine, qual è la giusta pena?La legge del taglione?L'assassino dovrebbe essere ucciso?Dovrebbe essere stuprato? E i serial killer? Una persona si può uccidere una volta sola. Per gli assassini dei miei nonni, che furono uccisi nell'olocausto, non ci potrà mai essere una "giusta" pena. E per mio padre, che è sopravvisuto alla tragedia,non ci potrà mai essere un "giusto" risarcimento. Mio padre non ha mai cercato giustizia o vendetta. Il suo obbiettivo nella vita è stato capire cosa è successo, per quali motivi è avvenuta questa
Denaro è un racconto sulla conquista econimica. Eventi come quello descritto sono accaduti molte volte nella storia del colonialismo. La storia cerca di spiegare anche l'aspetto del denaro che lascia più perplessi: Perché si può ottenere qualcosa da esso? Tutte le forme di denaro precedenti sono relativamente facili da capire: La gente era disposta a scambiare beni utili per denaro perché ciò che si usava come denaro era anch'esso utile. Semi di cacao, conchiglie di ciprea, cammelli, rame, argento o oro: era chiaro che si potesse scambiare queste cose per quasi qualunque altra perché anche quest'ultima era utile. Si poteva mangiarle, mungerle, cavalcarle oppure ricavarne utensili o gioielli. Tutto quello che tante persone vogliono avere può servire come denaro, come mezzo di scambio. Oggi le persone accettano banconote senza valore (no, la banca non garantisce di dare oro in cambio. Accadeva molto tempo fa), perché hanno bisogno del denaro del governo per pagare le loro tasse. Il semplice segreto è questo.